Assez!
Agache, la finanziaria di Arnault, patriarca di LVMH e uomo più ricco d’Europa, scarica la sua partecipazione del 5,7% in Carrefour, il secondo retailer mondiale. La partecipazione era stata comprata nel 2007. Ai tempi Carrefour vantava multipli estremamente grassi e si aggirava tra i 40 e i 55 euro. Proprio dove bazzicava un’altra società, stavolta nostrana, Assicurazioni Generali, che trattava anch’essa a valutazioni estremamente generose. Chiunque avesse osato mettere in discussione i multipli delle due società con un operatore di mercato di esperienza sarebbe stato subito rintuzzato con sguardo severo o di materna tenerezza, seguito con spiegazioni legate al presunto patrimonio immobiliare di Carrefour o alla metodologia contabile utilizzata da Generali di spesare i costi raccolta. In realtà, facendo appropriatamente due conti, avrebbe capito che quei due elementi difficilmente potevano bastare a giustificare il premio a cui i due titoli trattavano rispetto all’industria.
Quello che si impara negli anni è che alle cose ci si abitua e si finisce per darle per scontate, anche se non hanno molto senso. Questo vale anche in Borsa. Tuttavia, se non c’è una ragione concreta alla base le cose possono velocemente cambiare. Questi atteggiamenti mentali sono quelli che periodicamente ci fanno accettare considerazioni come “questa volta è diverso”. Tutto vale, alla fine, per il cash che genera.
Tornando alla nostra Carrefour, anche Arnaud, un genio, comprò a valutazioni diciamo piene, 47 euro per azione. Dopo 20 anni, le vende a 16 euro con una perdita del 65% e una minusvalenza di oltre 1 miliardo di euro. Perché un soggetto così deve vendere proprio ora? La logica ci dice che le possibilità sono tre: 1) Ha bisogno di soldi, 2) Può reinvestire a valutazioni migliori; 3) Non vuole rimanere investito in Carrefour. Eliminando agevolmente la prima ipotesi e difficilmente avallando la seconda, visti i bassi multipli a cui tratta Carrefour e il buon lavoro di ritorno alla crescita del management, rimane solo la terza. Ed è proprio questo che crediamo sia il punto. Dopo che il governo ha bloccato la scalata su Carrefour da parte della canadese Couche Tard, Arnaud non vuole più rimanere investito. Investito in qualcosa dove i rischi sono dell’imprenditore, ma l’upside può essere limitato da un governo più preoccupato dei suoi risultati alle prossime elezioni che della tutela della proprietà privata e dell’imprenditoria.
La mossa di Macron ha messo Carrefour per un po’ in naftalina, ma il miglioramento dei fondamentali, grazie a anni di taglio costi e alla gestione degli ultimi due anni di Bompard, è notevole. Per chi ha pazienza vale la pena allungarsi su una storia di ristrutturazione in un settore difensivo, a valutazioni basse e dividendo crescente, aspettando un cambio di guardia all’Eliseo.
Taro Kono
Un’altra opportunità si apre in Giappone. Suga lascia e apre la strada alle elezioni del nuovo leader del partito dominante in Giappone, il Liberal Democratic Party (LDP), leader destinato a divenire il nuovo Primo Ministro giapponese. Con l’uscita dalla corsa per la premiership del popolare ex ministro della difesa Shigeru Ishiba e il recente endorsement di Yoshihide Suga, la strada per il ministro Taro Kono sembra spianata. Quest’ultimo a 58 anni sembra un ragazzino in confronto alla gerontocrazia politica giapponese. Carismatico comunicatore, Taro Kono è l’alternativa al proseguimento dell’abenomics che Suga rappresenta. Nonostante promesse e proclami Abe non ha saputo continuare il processo riformatore di Koizumi affidandosi, come giustamente fa notare William Pesek alle pagine del Nikkei Asia (Japan must look beyond the usual suspects for its next leader – Nikkei Asia), alla BoJ e al quantitative easing per la ripresa dell’economia. Ora la spinta è finita e qualcosa di nuovo è necessario. Il Paese ha bisogno di modernizzare il mercato del lavoro, di stimolare produttività e investimenti, di attrarre le migliori risorse dall’esterno, di ridurre la burocrazia e aumentare la partecipazione delle donne nei ruoli lavorativi. Tutti obiettivi dell’abenomics, ben lontani dall’essere stati raggiunti.
Taro Kono appartiene ad una stirpe di famosi politici giapponesi. Il padre, Yohei Kono, è stato presidente dell’LDP e vice-primo ministro tra il ‘94 e il ‘95. Formazione internazionale e fluent in inglese, caratteristica rara in Giappone. Così come il suo linguaggio, chiaro e diretto, molto lontano dai rituali retorici della politica (e non solo) giapponese. Per questo è indicato come un soggetto diverso, con potenzialità di rivoluzionare in parte un Paese ormai chiuso, timido e insicuro, una lontana memoria di cosa fu il Giappone in un passato non troppo lontano. Oggi sembra l’unico candidato capace di iniettare fiducia e coraggio nella nazione e di agire efficacemente nella politica estera. Gli investitori ci sperano e orchestrano intanto un mini-rimbalzo per l’equity giapponese in questi ultimi giorni. Secondo noi fanno bene. Il profilo rischio/beneficio e’ attraente.
L’insostenibile leggerezza del debito
Nel famoso romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera l’essere non può venire giudicato. E vittima lui stessa degli eventi. Nel romanzo la leggerezza dell’essere si rivela in tutta la sua bellezza e utopia. Tale leggerezza può svanire e la percezione dell’essere, invece, diventare pesante, insopportabile, crudele e dolorosa.
Sostituendo a essere la parola debito alcuni di questi temi mantengono il significato. Il debito è buono o cattivo? Difficile rispondere. Se viene accumulato per investimenti produttivi, stimolando la crescita di una società? Se viene invece accumulato solo per migliorare il ritorno sull’equity (che è poi il modello del private equity)? Troppe le considerazioni possibili e diversi i punti di vista.
Chi fa value investing ha paura del debito. Soprattutto in fasi come queste, quando i bassi tassi d’interesse rendono il debito leggero. Tale percepita leggerezza può tuttavia divenire insostenibile. Chi fa value compra società ritenute trascurate. Spesso sono trascurate perché stanno passando una fase difficile. Questa fase difficile può essere passeggera o può protrarsi nel tempo. Se protratta nel tempo, un alto carico di debito può determinare la morte di una società che altrimenti non sarebbe morta. Quindi il debito ha il potere di cambiare completamente le sorti di un investimento. Infatti, quando una società indebitata passa una prolungata fase critica, è alto il rischio che banche e obbligazionisti, un tempo assai generosi, non rispondano più al telefono. A quel punto aumenti di capitale super diluitivi possono spazzare via il vecchio azionariato. In presenza di debito, quindi, il caso d’investimento è semplicemente diverso e l’allocazione deve tenere assolutamente conto di questo. Sono banalità, ma è importante ricordarle.
Premesso questo, non bisogna dimenticare che l’effetto venefico del debito può funzionare al contrario, aiutando l’equity a spiccare il volo. Trasformando in risotto ciò che risotto non è. I grandi telefonici, coloro che costruiscono e posseggono il network attraverso cui ci affacciamo al mondo digitale, sono quasi sempre molto indebitati. È un business model regolato, o quasi, che a fronte della visibilità sui ricavi può accettare un buon livello di debito. Tuttavia, negli ultimi quindici anni qualcosa è cambiato e, a causa di uno sviluppo regolamentare inatteso, i ricavi sono gradualmente divenuti meno visibili e il debito sempre più ingombrante. In questo contesto l’equity è stata penalizzata e gli investitori sono fuggiti.
Oggi nel settore abbiamo strutture di capitale con il debito che arriva fino a 2/2,5x il valore della capitalizzazione di borsa. Questo vuol dire che per un 10% di riduzione del valore della società (detto anche Enterprise Value = capitalizzazione+debito), l’equity deve scendere del 30/40% per mantenere i multipli invariati, visto che il debito rimane fermo. In alcuni casi, molti dei quali in Europa, con l’equity quasi a zero starà al regolatore e alla politica scegliere se statalizzare il settore o cambiare le regole.
Ma non finisce qui. L’aumento e la diminuzione del valore dell’azienda dipendono da utili e margini. Il business model dei telefonici è caratterizzato da grandi costi fissi e bassi costi variabili. Quindi alta leva operativa. Vuol dire che una piccola crescita dell’ARPU (revenue per user) può portare a crescite più che proporzionali degli utili. Nel secondo trimestre del 2021 SK Telecom, un operatore coreano, grazie al suo nuovo network 5G ha riportato una crescita dei ricavi di quasi il 3%. Questo si è tramutato in un aumento del reddito operativo di circa il 20%.
Oggi 1) si può scommettere che la situazione nel quadro regolamentare e competitivo dei telefonici, soprattutto in Europa, continui a peggiorare. In tal caso l’equity probabilmente non avrà più valore e ritorneremo al passato (evento a cui attribuiamo probabilità bassa).
Oppure 2) si può scommettere che la situazione rimanga invariata, con telefonici zombie che non muoiono, ma che restano incapaci di investire nel 5G, con danni competitivi significativi (nel breve può essere un’opzione plausibile vista la velocità di reazione della politica).
Infine, 3) si può scommettere che qualcosa in ambito regolatorio, e quindi competitivo, cambi in meglio e in tal caso la leva operativa amplificherà enormemente i piccoli miglioramenti di reddito, con un effetto incisivo su utile e valore aziendale. Aumento di valore aziendale che, grazie all’enorme leva finanziaria, si rifletterà, moltiplicato, nella capitalizzazione borsistica della società e, in definitiva, sui risultati dell’investimento.
Noi siamo investiti nel settore e ci vediamo grande valore, sebbene finora ci abbia dato solo dispiaceri. Tuttavia essere pazienti e cercare di capire come si evolvera’ la situazione fa parte del nostro approccio.
La famosa frase del romanzo di Kundera, “La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze” sembra perfetta per l’investitore value.
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