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04
Lug
2022
IL BRUTTO, IL BUONO E IL CATTIVO
Posted On luglio 4, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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“The good, the bad and the ugly”, Sergio Leone, 1966

La stagflazione (IL BRUTTO)

Come avevamo anticipato, la recessione negli USA e’ gia’ realta’. I dati sui consumi rilasciati pochi giorni fa lo confermano. I consumi americani sono scesi mese su mese dello 0,4% in termini reali a maggio, mentre il dato di aprile e’ stato rivisto da un +0,7% ad un +0,3%. Un dato leggermente negativo a giugno e’ probabile. La fiducia dei consumatori americani e’ ai minimi da 16 mesi. E questo non e’ negativo. Continuiamo a ritenere l’attuale recessione solo una recessione tecnica, creata dal crollo del mercato immobiliare, del mercato mobiliare (azioni ed obbligazioni), delle crypto valute, dall’eccesso di magazzini accumulati durante i problemi della supply chain e dalla stampa. Solo tra azioni e crypto negli USA il valore degli investimenti e’ sceso di 11 trilioni di USD, una cifra enorme (circa il 10% dei risparmi degli americani). E’ una recessione necessaria per evitare che l’inflazione diventi strutturale nel sistema. Ma e’ passeggera e probabilmente limitata a due/tre trimestri. Visione la nostra assolutamente molto positiva e assolutamente non condivisa dal mercato.

Sebbene ogni ciclo sia diverso da un altro, cosa succede al mercato azionario quando si alzano i tassi? Di solito sale. Questo perche’ l’economia sottostante e’ chiaramente forte, motivo per cui si alzano i tassi. Un rialzo significativo dei tassi porta tuttavia piu’ avanti ad una fase di rallentamento dell’economia che, a seconda dei fondamentali, puo’ portare ad un hard o soft landing, ossia ad una forte recessione o ad un semplice smorzamento degli eccessi. Ed e’ per tale motivo che gli economisti prevedono una recessione nel 2023, alla fine di una serie di rialzi che porterebbero, storicamente, ad un rallentamento importante. Perche’ invece questa volta gia’ dal primo rialzo della Fed di marzo il mercato non fa che scendere? Il mercato scende sia perche’ vi era una bolla tech di dimensioni poderose e poi per le paure legate alle ripercussioni legate al rientro della grande espansione monetaria durata un decennio.

Noi crediamo che dopo l’attuale recessione tecnica legata alla salita dei tassi e al crollo del mercato una recessione nel 2023 difficilmente vi sara’. Perche’? 1) Il mercato immobiliare, residenziale e commerciale, non e’ in bolla. Lo sbilancio tra domanda e offerta e’ sostanziale a seguito di anni di sotto-investimenti legati alla scarsita’ di finanziamenti bancari su questo settore. La fine della pandemia portera’ alla ripresa della domanda per uffici e confermera’ la casa come luogo di lavoro. L’inflazione rappresenta inoltre un altro supporto per questa asset class 2) I consumi rappresentano negli USA circa ¾ del PIL. Oggi la dinamica dei consumi e’ negativa come e’ naturale sia dopo il crollo dei mercati e le paure di recessione. Tuttavia, il mercato del lavoro e’ estremamente forte e questo rappresenta la spina dorsale dei consumi. La rilocalizzazione di molte industrie manifatturiere manterra’ la piena occupazione e, insieme a questa, una dinamica salariale positiva in termini reali. I bond finalmente forniscono rendimenti interessanti per i risparmiatori. Il mercato azionario ha corretto dalla bolla tech e la parte tradizionale risulta estremamente attraente e in un futuro non lontano riprendera’ gradualmente ad apprezzarsi. Questo ci dice che i consumi saranno solidi nel 2023, in ripresa rispetto al 2022 3) Gli utili societari beneficeranno nominalmente dell’inflazione, assorbendo eventuali pressioni inevitabili durante una fase di aggiustamento dei tassi. Inoltre molte industrie, come la finanza, gli armamenti, i carburanti fossili, e tutto cio’ che e’ legato ad infrastrutture e transizione energetica, crescera’ nei prossimi 12/24 mesi 4) Si e’ passati negli USA da un atteggiamento di compiacenza verso l’inflazione ad un atteggiamento di forte timore. Tanto che ormai non si parla piu’ di recessione ma di stagflazione, qualcosa che non si vede da 40 anni, in ambiti completamente diversi (Volcker alla FED e Ronald Reagan alla Casa Bianca). Oggi tuttavia l’inflazione sta scendendo e gradualmente nelle prossime settimane e mesi inizieremo a vederlo nei numeri. La discesa delle materie prime di questi giorni e il graduale sblocco della supply chain vi contribuiranno. L’overstocking creato proprio per ovviare a questi problemi nella supply chain portera’ a campagne di sconto sostanziali. Il ciclo di rialzo dei tassi sara’ potente ma assolutamente gestibile e crediamo che le attuali aspettative della FED del 3,8% per il 2023 non verranno riviste al rialzo ma potrebbero essere anche ritoccate leggermente al ribasso in un futuro non lontano (il 3,4% di fine 2022

Jamie Dimon, CEO della banca piu’ importante al mondo e acuto osservatore che raramente dice una parola fuori posto, ha affermato qualche settimana fa che vede una tempesta arrivare. Non sa se sara’ grande o piccola e le ripercussioni che avra’, ma la vede arrivare. Da dove nasce questa profezia? Molto ha a che fare con la velocita’ con cui la FED ha deciso di alzare i tassi (dall’attuale 1,75% al 3,4% a fine 2022 e 3,8% a fine 2023) e al QT (quantitative tightening, ossia al mancato reinvestimento dei 9 trilioni di bond in pancia alla FED a mano a mano che scadono) che e’ appena iniziato negli USA. Questo inevitabilmente leva molta liquidita’ dal tavolo in poco tempo. Quindi parte dei denari destinati ad investimenti immobiliari o azionari finira’ inevitabilmente per comprare bond ad (apparentemente) allettanti rendimenti, spezzando le gambe alla speculazione e nel breve periodo deprimendo il mercato immobiliare ed azionario. Inoltre il mercato anticipa l’enorme volatilita’ che questi eventi possono creare. Le conseguenze di queste manovre sono infatti sempre difficili da definire, in particolare dopo gli eventi del 2019, l’ultima volta che la FED inizio’ un QT. A quel tempo le riserve delle banche crollarono e i tassi sui REPO andarono alle stelle. E’ quindi crediamo normale ci sia un po’ di apprensione da parte del sistema bancario. Tuttavia, oggi il sistema bancario e’ piu’ preparato (e lo stesso Dimon afferma nella stessa intervista che le banche sono solide e pronte) e la FED ha un migliore controllo della situazione con adeguati set up per evitare il ripetersi delle passate tensioni.

Elon Musk afferma di essere super negativo sull’economia e che ridurra’ di 10k unita’ la forza lavoro. Quale imprenditore non lo e’ a breve dopo il recente crollo dei mercati e il rialzo dei tassi? Infatti gli USA sono in recessione. Tuttavia, ricordiamoci che Tesla ha assunto come un folle ed e’ giusto approfittare dei timori sull’economia per lasciare a casa i lavoratori meno utili nelle location meno efficienti. Ricordiamo che 10k lavoratori licenziati equivalgono a meno di un terzo delle assunzioni nette di Tesla del 2021.

Intanto Warren Buffet dall’inizio dell’anno ha comprato circa 60 bln USD in azioni, tra cui Paramount, Citigroup e Chevron.

In un articolo sul NYT nel week end Paul Krugman (Wonking out: taking the flation out of stagflation) anticipa che, a seguito degli ultimi dati economici, la Fed potrebbe rivedere presto al ribasso la velocita’ di rialzo dei tassi.

L’Economist cerca di rispondere all’isterismo di coloro che vedono oggi un “Volcker moment”, ossia la necessita’ di alzare enormemente i tassi per evitare che l’inflazione entri nella logica delle persone. Il settimanale inglese fa giustamente notare che quando Volcker intervenne duramente sui tassi, gettando il paese in recessione, l’inflazione era ormai da dieci anni rampante negli USA. Oggi siamo ben lontani da considerare l’inflazione o la super inflazione un compagno di viaggio.

Infine Lawrence Summer, in una intervista nel week end, rivede al ribasso le sue aspettative sull’inflazione (fu uno dei primi nel 2021 ad anticipare un’ondata inflazionistica e ad opporsi al piano fiscale Biden) e sul rialzo dei tassi, alla luce della frenata dell’economia USA nei primi due trimestri dell’anno.

Per essere equilibrati riportiamo anche due interessanti, leggermente meno recenti e molto negativi podcast di Greg Jensen, Co-CIO di Bridgewater. Lui si aspetta stagflazione prolungata negli USA e crede che l’inflazione rimanga qui fuori controllo per molto tempo. Tuttavia la tesi a nostro avviso non viene sostanziata in maniera appropriata. Consiglia di investire in asset cheap che producono cash flow (e su questo non possiamo che concordare) e che possono beneficiare dall’inflazione mentre consigliano di stare lontano da tecnologia (ancora d’accordo). Consiglia, inoltre, di diversificare dagli USA che ritengono prezzata per la perfezione, investendo nel resto del mondo (anche d’accordo). E’ anche negativo sull’Europa dove vede una recessione ancora piu’ pesante di quella che vede negli USA (che come detto noi non vediamo ma, anche ci fosse, e’ comunque gia’ prezzata). Qui Bridgewater ha shortato 27 titoli dell’eurostoxx50 per circa 15 bln USD (compreso molti titoli cheap e che producono molto cash flow..). Invece e’ da diverso tempo molto positivi sulla Cina e continuano ad esserlo anche dopo le grosse perdite ed i recenti eventi geopolitici. Sul dollaro sono negativi e anticipano un lungo bear market appena la FED si avvicina alla fine del ciclo rialzista. Rimangono estremamente negativi sui corporate bond. In generale, la nostra opinion e’ che vedono una fase delicata sui mercati, con volatilita’ e cambiamenti radicali e scommettono su qualche incidente, pronti come sempre a ricoprirsi velocemente se sbagliano. Insomma ci provano ma ricordiamoci che non sono i soli e c’e’ moltissimo short oggi sui mercati che prima o poi dovra’ ricoprirsi. Qui i link Bridgewater Co-CIO Jensen on Investing Outlook – YouTube     Bridgewater Co-CIO Jensen on Markets, BOJ Policy, Dollar – YouTube

In Europa valgono molte delle tematiche presentate per il mercato americano. Con alcuni distinguo: 1) L’economia europea non beneficia ma e’ danneggiata dall’attuale prezzo degli idrocarburi 2) In Europa il premio per il rischio legato al conflitto ucraino e’ significativamente piu’ alto che negli USA (e, al contempo, la fine del conflitto portera’ alle azioni di questa regione un beneficio molto piu’ significativo) 3) In Europa le pressioni inflazionistiche sono piu’ basse in quanto gli stimoli fiscali sono stati maggiormente spalmati rispetto agli USA. I futuri stimoli fiscali continueranno a sostenere l’economia e il mercato del lavoro nella seconda parte del 2022 e nel 2023 4) In Europa vi e’ una minore dipendenza dei consumi dai mercati finanziari, fatto che crediamo evitera’ una recessione tecnica nel 2022.

Come negli USA, non ci aspettiamo una recessione in Europa nel 2023 anche in caso di taglio del gas russo. Parlando con le grosse societa’ industriali tedesche non percepiamo particolari timori. Chiaramente le previsioni sono fatte per essere smentite e chiaramente gli sviluppi della guerra in Ucraina e’ determinante per la regione. Tuttavia, e’ importante capire che ora il mercato si aspetta una recessione sia in Europa che negli USA nel 2023. I grandi investimenti infrastrutturali, la riapertura post-covid, i risparmi accumulati durante la pandemia e un mercato del lavoro forte sono incompatibili con una recessione a nostro avviso, a meno che altri nuovi eventi sopraggiungano. Tuttavia, anche vi fosse, dovrebbe essere lieve ed e’ oggi piu’ che prezzata dal mercato, con i ciclici che viaggiano in molti caso ai livelli del buco del marzo 2020. Ribadiamo che e’ ora il momento di comprare i ciclici, tanto osannati (e spesso cari) nel 2021, in vista della rivoluzione infrastrutturale davanti a noi e che trattano ora a livelli estremamente bassi. Anticipare e diversificare e’ essenziale. Qui sotto le previsioni di crescita PIL Berenberg per il 2023 in maggio e in giugno che fanno capire come le previsioni di crescita tassi USA e la discesa dei mercati abbiano stravolto la percezione degli analisti. Crediamo tuttavia che le nuove previsioni siano altrettanto inattendibili quanto le precedenti.

Repressione finanziaria (IL BUONO)

Stiamo vivendo una fase economica storica. Aree geografiche che, per varie ragioni, sono state oggetto di stagnazione economica e deflazione, come Europa e Giappone, stanno ora per intraprendere un viaggio che dovrebbe riportarle alla crescita. E’ un esperimento ma in ballo c’e’ cosi’ tanto che tutti gli attori faranno in modo che riesca.

Dal dopo guerra fino alla fine degli anni 70 gran parte del mondo occidentale ha ridotto il debito di guerra grazie alla cosidetta repressione finanziaria, ossia attraverso un livello di tassi di interesse leggermente inferiore all’inflazione, ottenuti grazie all’acquisto del debito stesso da parte delle banche. Ridurre il debito in tale modo e’ politicamente piu’ accettabile che aumentare le tasse o ridurre i servizi pubblici. Il tasso reale dei titoli governativi a breve americani e’ stato negativo dal 1945 al 1980. Chi avesse investito in obbligazioni inglesi tra il 1945 e il 1960 avrebbe perso oltre1/3 del proprio potere di acquisto.

In realta’ la repressione finanziaria e’ presente in moltissime aree sin dalla grande crisi finanziaria del 2008, ma essendo l’inflazione vicino a zero gli effetti sulla riduzione del debito sono stati insignificanti. Ora l’inflazione e’ ritornata e, grazie a trend strutturali come la deglobalizzazione e la transizione energetica, non rientrera’ completamente. Attraverso un livello di inflazione costante la repressione finanziaria portera’ i suoi risultati. E rappresenta la risposta, l’unica risposta possibile per Giappone ed Europa. In un clima di repressione finanziaria il creditore perde in termini reali ma il sistema in cui opera cresce e si sviluppa, bilanciando tali perdite attraverso guadagni sulla parte azionaria e immobiliare. In tale contesto sara’ appropriato stare lontano dai governativi e investire in azioni e nel settore immobiliare, e non solo nel residenziale dei centri cittadini ma anche nel commerciale e nelle periferie, aree che la mancanza di crescita ha spesso ridotto in dormitori semi abbandonati. Riportare la crescita economica implica stimolare il trend demografico, attraverso l’accelerazione del processo di immigrazione necessario per espandere consumi e produzione.

In un editoriale del week end Seth Carpenter, global chief economist a Morgan Stanley, afferma che viste le previsioni sui tassi rilasciate dal Fed Market Committee si evince che vi e’ la disponibilita’ ad accettare un’inflazione piu’ alta del dovuto per un esteso periodo di tempo. La BCE sembra ancora piu’ in quel campo. Il Giappone e’ oltre, continuando a monetizzare il debito pubblico e mantenendo i tassi a zero. Quando l’inflazione si fara’ finalmente sentire vigorosamente anche in Giappone non ci sorprenderemmo se il debito in mano alla BOJ (circa il 35%) venisse cancellato, creando le premesse per l’ultima poderosa gamba di svalutazione dello yen e la ripresa dell’economia giapponese.

Qui il link ad un interessante podcast di del prof. Russell Napier, dove parla di repressione finanziaria (Professor Russell Napier: The equity index fund is a dangerous product – YouTube

 

Guerra (IL CATTIVO)

La Russia ha conquistato l’ultima citta del Luhansk, una delle due regioni che compongono il Donbass, l’area del paese che Putin ha promesso di “liberare”. Questa rappresenta una notevole vittoria per Putin che ha bisogno di dimostrare i suoi successi al fine di bilanciare le forti perdite e il crescente discontento interno. Allo stesso tempo le nuove postazioni mobili di lancio HIMARS fornite dagli USA all’Ucraina stanno iniziando a produrre effetti, distruggendo depositi di armi e centri di comando russi con grande precisione. Altre arriveranno nelle prossime settimane. Apparentemente la guerra non puo’ finire fino a che tutto il Donbass non sara’ in mano russa. Tuttavia, diversi commentatori sembrano indicare che la Russia, dopo l’ultimo drammatico colpo di reni per conquistare il Luhansk, che ha portato enormi perdite all’esercito, abbia ora difficolta’ a procedere ulteriormente e, allo stesso tempo, a tenere il controllo dei territori gia’ conquistati. I missili russi lanciati a casaccio sul resto dell’Ucraina possono indicare questo. Tutto puo’ ancora succedere. La Russia puo’ ora avere interesse a sedersi per trattare, mantenendo parte del Donbass e rilasciando altri territori. L’Ucraina vorra’ sicuramente continuare la guerra per riprendersi i territori occupati e chiedere i danni. Il mondo occidentale ha intenzione di penalizzare la Russia e il regime di Putin ma, al contempo e senza chiaramente ammetterlo, di evitare rischi legati a l’utilizzo di ordigni nucleari tattici da parte della Russia. Quindi fornira’ le armi necessarie per bilanciare le forze in campo, nulla piu’. Oggi il consenso e’ per una guerra ancora molto lunga. E crediamo questa sia in effetti una possibilita’, gia’ ben digerita dal mercato. Tuttavia, non escludiamo che nel corso delle prossime settimane le cose possano cambiare. Il timore dell’Ucraina del lancio di atomiche tattiche su Kiev puo’ ammorbidire le loro posizioni. Infatti la Russia potrebbe usare i recenti attacchi missilistici ucraini verso depositi in territorio russo per minacciare ripercussioni missilistiche sulla capitale e eventualmente proprio l’uso di atomiche tattiche. Contro questo l’occidente non ha armi, non volendo in nessun caso rischiare una guerra atomica. Come sempre, in mancanza di un chiaro vincitore, bisogna che le parti abbiano entrambe molto ancora da perdere per raggiungere il tavolo dei negoziati. Crediamo che non siamo distanti da quel punto.

Ogni notizia di apertura negoziati avrebbe un significativo impatto positivo sui mercati mondiali, in particolare su quelli europei. Inoltre, porterebbe ad una riduzione dei prezzi del gas e del petrolio, allentando i timori inflazionistici.

 

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20
Giu
2022
R come rabbit…
Posted On giugno 20, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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In questi giorni viene in mente il vecchio adagio attribuito a Nathan Rothschild, “compra al tuono dei cannoni e vendi al suono delle trombe”.

Una recessione a 2/3 anni dalla pandemia, fino a pochi mesi fa un’ipotesi del tutto remota. Tale eventualità non veniva completamente scartata dal mercato solo per scaramanzia. Come quando temi di perdere l’aereo per recarti al villaggio all inclusive alle Maldive, dopo averlo sognato per anni, pur sapendo in cuor tuo che non lo perderai.

In poche settimane la recessione è divenuta una certezza.

Cercando ora di elevarci sopra il rumore di fondo, diamo un’occhiata ai titoli ciclici, quelli che dovranno più soffrire, ahimè, a causa della recessione.

Oggi i costruttori residenziali negli USA si trovano vicino a -50% dai massimi raggiunti negli ultimi dodici mesi (D. R. Horton e Lennar -45%, KB Home -51%, Redfin -80%). Le banche vanno dal -35% (JPM, Bank of America, Wells Fargo) a oltre il -40% (Citigroup). Le assicurazioni dal -20% al -40% (Metlife -17%, Prudential -25%, Lincoln -39%). Le società di trasporto, quelle che più anticipano una recessione, dal -30% al -40% (Fedex -29%, UPS -27%, DPW -43%), i retailer dal -30% al -50%   (Home  Depot -35%, Kohls -38%, Macy -47%, Target -48%), i cementiferi e materiali da costruzioni dal -30% al -60% (Martin Marietta  -31%, Vulcan Materials -31%, CRH -34%, Tutor Perini -58%), infine, gli automobilistici di oltre il 50% (GM -53%,    Ford -56%). Tutti i settori citati non sono comparabili con gli stessi settori nel 2007 o anche nel 2020. Oggi sono molto più solidi e con prospettive di medio termine migliori. Inoltre, il consumatore è meno indebitato e spaventato.

In Europa, cortesia della guerra, troviamo gli stessi ritracciamenti nel settore ciclico, seppur con valutazioni ancora più contenute.

È la recessione inevitabile? Crediamo di no e continuiamo a pensare, a differenza di quanto pensa il mercato, che vedremo una recessione tecnica negli USA quest’anno e nessuna recessione l’anno prossimo. Ma i pronostici, come si sa, lasciano il tempo che trovano e quello che conta rimane il profilo rischio/rendimento. E’ quindi la recessione scontata nei prezzi dei ciclici? Crediamo di sì. Staremmo invece alla larga ancora (per molto) dai tecnologici oggetto della bolla e dai cosiddetti titoli “quality” la cui qualità, con rallentamento e rialzo dei tassi, verrà ben presto testata. E dal momento che si trovano su valutazioni fra il 50 e il 100% sopra la valutazione del mercato, sarà opportuno che la confermino. Infine, attenzione anche ai farmacetici. Sebbene otticamente non cari sugli utili, presentano tuttavia margini molto succosi (ormai stanno tutti tra le 3x e le 5x le vendite), proprio mentre l’amministrazione Biden sta cercando di ridurre il costo dei farmaci da prescrizione negli USA, area geografica da cui arrivano in media quasi 2/3 degli utili del settore.

Noi perdiamo tempo a trastullarci con le società in cui siamo investiti. Leggiamo ciò che pubblicano. Le importuniamo con richieste ardite su come compilano i loro report di sostenibilità (spesso non lo sanno) o per capire i numeri dei loro bilanci o per indagare su come vanno in generale le cose. Quello che osserviamo è che quelle che non vendono commodities (metalli, carta, carburanti, etc) tendono ad aggiornare i prezzi con un certo ritardo in quanto i vecchi contratti non tengono in considerazione sbalzi come quelli che abbiamo visto di recente. Anche i salari necessitano una certa negoziazione prima di essere alzati. Quello che vogliamo dire è che l’inflazione è come una barca, sai che girerà se muovi la barra, ma ha quella cosa, che in termini velistici si chiama abbrivio, che crea un lag temporale. Noi crediamo che l’inflazione galoppante, il terrore di ogni banchiere centrale, sia ormai sotto controllo. Il crollo del mercato e il movimento dei tassi hanno ristabilito ordine. Ma ci vuole tempo prima che si veda nei numeri. Il rischio è chiaramente che una banca centrale inquieta e sotto pressione uccida il paziente con una terapia troppo pesante e non necessaria. Queste cose la banca centrale le sa e sa anche che deve mostrarsi cattiva per uccidere quelli che vengono definiti come “animal spirits” del mercato, ossia la positività umana che si riflette nella salita dei mercati, salita che è di per sé inflattiva.

Buona parte del ribasso è già avvenuto, così come buona parte dell’inflazione ha già fatto il suo corso. Escludendo i tecnologici che vivono una vita a parte, anticipando crescite molto future, e i cd titoli quality, di cui abbiamo già parlato, il mercato americano è oggi di nuovo attraente. Quello europeo vale una canzone e rimane legato alla normalizzazione energetica e alla fine della guerra. Quello giapponese risulta sempre eccezionalmente a buon mercato, con una banca centrale che, sicuramente in accordo con gli USA, sta reflazionando potentemente il paziente e lo sta riportando in vita dopo trent’anni di coma profondo. D’altronde gli USA hanno oggi bisogno di un Giappone forte, che possa presidiare bene un’area delicata. La Corea pare seguire il mercato americano e presenta la stessa occasione d’acquisto che presentò nel marzo 2020. Intanto molti degli emergenti beneficiano del super ciclo delle commodities.

Robert Armstrong, un simpatico e bravo giornalista dell’Ft, parla in settimana della revisione al ribasso degli utili societari (clicca qui per leggere l’articolo). Dopo aver premesso che a 15,2x gli utili 2023 lo S&P non può essere considerato caro, il giornalista tuttavia ipotizza che se al posto di un rialzo del 10% nel 2023, come atteso, ci trovassimo con un ribasso del 10%, lo S&P passerebbe da 15,2x a 18,5x gli utili. In un’area certo non a buon mercato. Bene, ipotizzare un rialzo del 10% degli utili per il 2023 in realtà equivale a prevedere utili piatti, per via dell’inflazione del periodo. Quindi un ribasso del 10% degli utili dello S&P nel 2023 equivarrebbe a un ribasso in termini reali del 20% e sarebbe qualcosa di drammatico, simile a quello registrato nel 2020 (Covid) e solo inferiore a quanto registrato nel 2008, durante la peggiore crisi finanziaria dal ‘29. Questi P/E sono poi ancora la conseguenza della forte presenza di tecnologici e di titoli “quality” interno dello S&P. Nei nostri portafogli è difficile trovare titoli sopra i 10x gli utili e circa la metà trattano sotto il patrimonio netto tangibile. Sia chiaro che non stiamo parlando di poche situazioni estreme, abbiamo infatti nei vari prodotti circa 500 titoli. Come già detto, la situazione ricorda gli anni ’70, quando i titoli dell’economia reale erano estremamente depressi.

Siamo tutti spaventati dalla R, ma non c’è mai occasione migliore di una recessione per ottenere significativi guadagni, con l’eccezione di quelle accompagnate da una crisi finanziaria. Quest’ultime sono lunghe e molto pericolose. Meglio starne alla larga. Oggi, tuttavia, il sistema finanziario è solido, come confermato dallo stesso James Dimon, rispettato e autorevole CEO di JPM, e reggerà bene l’onda d’urto.

Un bear market medio dura circa nove mesi con ribassi intorno al 36%. In questa ipotesi, in ottobre toccheremmo i minimi con un ulteriore ribasso del 17% dai livelli attuali dell’indice S&P500. Uno spazio di ribasso non certo modesto. Ma ricordiamoci che stiamo parlando di statistiche che incorporano bear market quali quello lunghissimo del 2000-2003, quello della grande crisi finanziaria e l’enorme crollo del marzo 2020. Inoltre, dall’inizio del bear market alla fine, un’ondata inflattiva, come detto, avrà protetto il downside dell’indice che, come sappiamo, esprime grandezze nominali e non reali. Negli ultimi dodici mesi il CPI americano è salito del 10% e nei prossimi dodici è ragionevole che salga del 6%. Quindi in termini reali siamo già vicini al 36% citato. Inoltre, in considerazione del sistema finanziariamente solido e delle buone prospettive sul fronte investimenti (infrastrutture, transizione energetiche, deglobalizzazione) è plausibile che, anche in caso di recessione, il ribasso dovrebbe essere più mite della media dei precedenti.

I mesi estivi rappresentano pertanto l’opportunità per investire e posizionarsi attentamente, con giudizio e diversificazione. Prima che il mercato, come un leprotto, cambi rapidamente direzione, proprio nel momento di massima negatività, iniziando a zampettare, allegramente e senza apparente ragione, verso una fase di crescita. Il prossimo rialzo sarà basato meno sulla speculazione e più sull’economia reale e avrà su quest’ultima ripercussioni concrete.

R come rabbit…

 

ATOS

Nell’ultima settimana, Atos, un titolo su cui abbiamo posizioni rilevanti, almeno per noi che riteniamo la diversificazione vitale, ha perso il 50%. Dopo che aveva perso nei precedenti 12 mesi già il 60%. Si potrebbe pensare che si tratta di un titolo oggetto della bolla del Nasdaq. Nulla di più lontano. Il titolo è uno dei titani della consulenza IT, con oltre 110k professionisti a libro paga e 11 miliardi di euro di fatturato annuo. Il titolo prima del crollo degli ultimi 5 giorni trattava a circa 0.4x EV/SALES contro un mercato che tratta tra le 2 volte (CapGemini o Reply) e le 3 (Accenture). Qui il problema era di governance e management dopo la dipartita di Thierry Breton, due anni fa, che lasciava la guida della società per divenire Commissario EU. Un Presidente del board dirigista, Bertrand Meunier, e un amministratore delegato probabilmente senza la necessaria esperienza, Elie Girard, hanno prodotto una serie di errori importanti. All’inizio dell’anno l’assunzione di Rodolphe Belmer, un manager di esperienza responsabile dell’efficace turnaround di Canal Plus, come nuovo amministratore delegato, ha dato speranza al mercato. Questi ha dolorosamente pulito bilancio (kitchen sinking) e ha riportato la società nel primo trimestre verso la crescita. Dal suo arrivo la società ha anche assunto circa 10k nuovi professionisti (al netto delle uscite). Sicuramente un segnale incoraggiante.

La sorpresa. Pochi giorni fa Belmer è stato licenziato e la società ha presentato un piano strategico (clicca qui per accedere alla presentazione) che sulla carta può avere senso, ma che non ha il supporto dell’amministratore delegato. Il piano si basa sulla scissione della divisione infrastrutture da quella digitale e da quella cybersecurity (BDS). Scissione da farsi entro due anni. Belmer invece voleva vendere la divisione BDS che rappresenta il 12% delle vendite per cui aveva ricevuto un’offerta da Thales per 2,7 miliardi di euro (la società prima del crollo valeva 4,8 miliardi considerando anche il debito di 2 miliardi). Anche Airbus sembrava interessata a rilevarla per una cifra superiore ai 3 miliardi. Vendendo BDS sarebbe rimasta la divisione infrastrutture in ristrutturazione da gestire in futuro come una cash cow e la divisione digitale la cui crescita poteva essere rilanciata.

Davanti alla dimostrazione di disaccordo del management e la decisione finale di perseguire una strategia a cui il CEO, da poco assunto, non credeva, gli hedge fund si sono lanciati a vendere allo scoperto. Gli altri investitori (tra cui noi) sgomenti hanno cercato di capire il senso di tutto questo. Intanto, per facilitare il lavoro agli HF, il governo francese faceva uscire un comunicato che precisava come la società non avrebbe potuto essere oggetto di take over.

ATOS vs CAPGEMINI 3Y Total Return

Source:  Thompson Reuters

Purtroppo, queste cose succedono. I tempi di ritorno sul capitale si allungano ma potenzialmente il ritorno aumenta. Nonostante la comprensibile delusione non vi è ragione per cui il titolo tratti a questi prezzi, a prescindere dalla strategia. Il management giusto alla fine verrà trovato. La società ha divisioni uniche di altissima qualità. Crediamo che la crisi nel settore infrastrutture a 12 mesi sarà rientrata grazie alla riduzione di offerta e al trend di consolidamento dell’industria. Il supporto dello stato francese, primo cliente della società, è incondizionato. Il pessimismo e lo short sul titolo sono estremi. Non vi è rischio di falso in bilancio o fallimento. La divisione BDS può in ogni momento essere liquidata ad una valutazione ormai uguale al valore di tutta la società, debito compreso.

Stiamo quindi ricomprando il titolo, sempre nell’ambito della corretta diversificazione e controllo del rischio.

 

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13
Giu
2022
“S’ha da aspettà, Ama’. Ha da passà ‘a nuttata”
Posted On giugno 13, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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In questi ultimi giorni la voglia di rimanere investiti in azioni comprensibilmente viene messa a dura prova.

Come sappiamo le problematiche sono tante ma cerchiamo di analizzarle in prospettiva insieme alle opportunità che in questi frangenti tendono ad essere dimenticate.

1. I tassi salgono. Salendo i tassi si leva liquidità dal tavolo e quindi meno leva finanziaria e meno investimenti. Tuttavia, tassi più “normali” aiutano la redditività del sistema finanziario, riducono deficit pensionistici aziendali e pubblici e aumentano i rendimenti dei risparmiatori.Inoltre, la normalizzazione dei tassi riduce la speculazione, nemica della crescita reale di lungo periodo. Quanto a mutui e mercato immobiliare, ricordiamo che una famiglia si compra casa quando è fiduciosa sul futuro del proprio lavoro e un 2% di maggior interesse da pagare è determinante solo per la società immobiliare che usa molta leva finanziaria.

2. L’inflazione è molto alta, non distante dal 10%, sia negli USA che in Europa. Tuttavia, 1/3 di quella USA e 2/3 di quella europea derivano dalle componenti volatili legate al cibo e al petrolio, oggi sotto pressione a seguito della guerra. Passata la guerra il tasso dovrebbe scendere gradualmente a livelli vicini, ma superiori al 2%. Questa ondata inflattiva è tuttavia importante per stimolare l’economia di aree come il Giappone e l’Europa, chiuse in una morsa deflazionistica da anni. Se è vero che l’inflazione inizialmente pesa sul consumatore, è anche vero che poi riattiva la dinamica salariale, stimola il mercato immobiliare, in particolare nelle aree secondarie, e rende ancora più interessanti le società quotate legate all’economia reale, con impianti e cespiti, quelle che oggi stanno nella parte value. Se è vero che qualche settore ne può inizialmente risentire a livello di utili, è tuttavia anche vero che nel medio periodo quasi tutte le società registrano maggiori utili in un ambiente inflazionistico, almeno nominalmente. Infine, l’inflazione riduce i debiti pubblici e privati.

3. Il petrolio, gas e derrate agricole così alte rappresentano una tassa per il consumatore. Rappresentano però anche un enorme incentivo ad investire pesantemente nel settore energetico ed alimentare, settori cruciali non solo da un punto di vista ambientale e sociale, ma anche perché sono fortemente capital intensive. Agricoltura vuol dire fertilizzanti, sementì, macchine agricole e terreni che acquisiscono valore. Energia vuol dire rinnovabili, grid, pipeline, idrogeno, nonché stimolare la crescita dell’offerta di gas attraverso più investimenti in upstream. Parliamo di centinaia di miliardi di dollari di maggiori investimenti per i prossimi 3/5 anni a seguito delle anomalie emerse con la guerra. Questo crea un potente volano che nutre la domanda aggregata.

4. La guerra è evento drammatico. Non passa giorno senza che i nostri pensieri vadano alle famiglie devastate dal conflitto. Tuttavia, le guerre finiscono. E questa non farà eccezione. Più sarà lunga la guerra più durerà la volatilità dei mercati, ma più aumenta anche la probabilità il regime di Putin finisca. Una guerra lunga sarà difficile da spiegare anche per un regime totalitario. Una volta finita vi saranno centinaia di miliardi di euro da spendere per ricostruire l’Ucraina. L’Europa finanzierà una buona parte della ricostruzione e ne beneficerà proporzionalmente.

5. Tanto ci si lamenta dei colli di bottiglia della supply chain, ma poco si parla del fatto che questi fanno parte integrante del processo di deglobalizzazione che riporterà in-house tanti processi manifatturieri importanti, supportando il mercato del lavoro già ora solido.

6. Gli stimoli fiscali globali annunciati devono ancora in buona parte essere liberati e supporteranno i trend di cui sopra, in particolare in Europa, Giappone e Corea.

7. La BCE ha in parte deluso. Vero. Avere già predisposto uno strumento contro un’altra crisi dell’area euro (“frammentazione”) sarebbe stato saggio. Ci vuole probabilmente un po’ di tensione sui mercati perché venga predisposto, altrimenti in Olanda o Germania viene a mancare il supporto politico. Oggi però un’altra crisi dell’area euro è altamente improbabile in quanto si sa che in quel caso la BCE certamente interverrebbe in maniera chiara e rapida, con strumenti già conosciuti ed efficaci.

8. Anche in caso di recessione tecnica, meglio non scommettere in utili fortemente rivisti al ribasso. Le dinamiche descritte, oltre la voglia di ripartire dopo la pandemia, e i sovrarisparmi accumulati durante questa dalle famiglie, agiranno da impulso per i consumi.

9. Le valutazioni della parte tradizionale sono molto basse, in particolare fuori dagli USA.

In un contesto di guerra, inflazione, fine del QE, deflazione bolla tech e con una probabile recessione tecnica negli USA in arrivo può sembrare facile scommettere contro il mercato e seguire il trend di questi giorni. Non lo faremmo. Se queste tematiche tengono per ora il mercato cappato, le argomentazioni di cui sopra gli creano un supporto importante. Si continuerà lateralmente e questo darà la possibilità ai più flessibili di acquistare su debolezza (non il tech) e rilasciare sulla forza. Dovremmo probabilmente aspettare la recessione tecnica negli USA, con l’inevitabile frenata inflazionistica per levare gli stop e goderci un significativo rerating del mercato, ad iniziare da Europa e Giappone. Essendo il downside del mercato oggi limitato (parte tradizionale/value) crediamo sia meglio rimanerci e approfittare di queste fasi di stress per accumulare titoli finanziariamente solidi, con un buon franchise e basse o bassissime valutazioni. E c’è l’imbarazzo della scelta…

 

Panta rei

Un paio di settimane fa Bank of America ha pubblicato un report di Peter Harnet in cui appariva un grafico molto interessante. Esso illustra il break down del GDP globale per area geografica nei diversi periodi storici. Così si può vedere che 2000 anni fa Cina, India, Grecia, Egitto e Turchia rappresentavano l’84% del GDP globale. Verso la metà del 1800 Russia e Cina rappresentavano circa il 40%. Il Comunismo le ridimensionò molto. In particolare, la Russia passò dal 30% del 1800 all’attuale irrilevanza, resa probabilmente ancora più estrema dal recente conflitto. Mentre la Cina ritornò a crescere con l’avvento del “socialismo di mercato” di Deng Xiaoping, passando dal 5% negli anni ’70 all’attuale 25%. La crescita successiva alla sua inclusione nel WTO nel 2001, che segnò l’inizio della fase estrema della globalizzazione, fu drammatica e coincise con la riduzione di peso dei Paesi Occidentali. Il Giappone crebbe dal nulla fino al 5% con l’espansione economica dell’era Meji (1868-1912) che mise fine al shogunnato e ai samurai. La Seconda guerra mondiale ridimensionò pesantemente il Giappone che poi, però, dal 1960 al 1990, cavalcò due fasi di crescita eccezionali che lo portarono fino al 14% del GDP globale. Quasi 30 anni di deflazione e bear market lo riportarono poi al 6%, e ora si vedono segnali di stabilizzazione. La Gran Bretagna visse la sua fase di gloria nel periodo vittoriano e da lì è sempre scesa, sebbene meno dell’Europa. Nei prossimi anni si vedranno i risultati della Brexit sul paese. L’Europa è riuscita a rimanere rilevante per 2000 anni, con staffette tra i romani i francesi e i tedeschi. Il massimo fu toccato negli anni ’60 e ’70 con la creazione di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea. Purtroppo, poi vi fu un graduale declino che accelerò vistosamente con l’entrata della Cina nel WTO. Dopo tale fase l’Europa perse circa il 10% di GDP globale. L’India è rimasta anch’essa rilevante nel tempo. Dopo i fasti di 2000 anni fa, quando il suo GDP era più grande di quello cinese e toccava quasi il 40% del GDP globale, vi fu una graduale riduzione di importanza che si accentuò con la dipartita degli inglesi e la ripartizione del paese. Un paese con grandi risorse, ma con una democrazia confusionaria, l’India è rimasta a circa il 5% del GDP globale per tutto il ventesimo secolo e dà segnali ora di risveglio, purtroppo, come spesso accade, con una democrazia con toni autocratici. Infine, gli Stati Uniti. Sono coloro tra i Paesi Occidentali che meglio hanno saputo gestire la globalizzazione, limitando la perdita di peso che tuttavia risulta essere dal 2001 pari al 5%.

Ognuno può trarre le proprie conclusioni. Noi ci limitiamo a qualche riflessione.

Un governo autocratico che fa le cose giuste può spesso accelerare la crescita del Paese, ma se non le fa può facilmente rappresentare la causa della demise del paese stesso. Quindi per gli investimenti una democrazia per quanto imperfetta, è sempre preferibile.

Pur riconoscendo i meriti della globalizzazione, questa fu impostata male e portò ad un aggiustamento troppo veloce. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un Occidente dipendente da una Cina potente, autocratica, bellicosa e con valori completamente diversi da quelli occidentali.

La Russia sembra pronta a toccare il fondo e non ci sorprenderemmo se questa folle guerra rappresentasse la fase finale del suo drammatico declino.

L’Europa probabilmente potrebbe trovare in una vera unione la soluzione per uscire dalla decadenza in cui si trova. Se è vero che è ancora difficile essere ottimisti su questo fronte, possiamo dire di esserlo più di quanto lo fossimo tre anni fa.

Breakdown GDP globale per area geografica nei 2000 anni passati

 

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16
Mag
2022
Yayoi Kusama
Posted On maggio 16, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Lo scoppio di una bolla è evento drammatico e affascinante. Con ripercussioni profonde. Non è una novità. Tuttavia, la tendenza a scordarselo o, per i più giovani, non analizzare cosa successe in passato, è forte.

1) La prima conseguenza dello scoppio di una bolla azionaria è la drastica riduzione della propensione al rischio da parte dell’investitore. Questo vale indistintamente per tutte le asset class, anche quelle non affette dalla bolla e, nella parte iniziale, anche nei confronti di quelle che dallo scoppio ci guadagneranno. È quindi importante essere freddi e calmi, cercando di anticipare il ritorno alla normalità, acquistando titoli ingiustamente penalizzati.

2) La seconda conseguenza dello scoppio della bolla è rappresentata dall’enorme perdita di ricchezza che questa provoca. Cui evidentemente segue una marcata riduzione della propensione al consumo e all’investimento. Agisce quindi come una severa manovra restrittiva. Lo scoppio della bolla a cui stiamo assistendo metterà un bel cap ai tassi di mercato (e alla forza del dollaro), elemento questo estremamente positivo in un contesto di isteria inflattiva. Potrebbe portare gli USA anche a una recessione tecnica, o ad avvicinarvisi molto. Tuttavia, un sistema finanziario solido e l’elevato livello dei risparmi delle famiglie eviteranno reazioni a catena e la ripresa economica sarà poi relativamente veloce.

Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – The Souls of Millions of Light Years Away, 2013. Wood, metal, glass mirrors, plastic, acrylic panel, rubber, LED lighting system, acrylic balls, and water, 287.7 × 415.3 × 415.3 cm. Courtesy of David Zwirner

3) La terza conseguenza è che le attività oggetto della bolla potrebbero risultare intoccabili per lungo tempo. In tale contesto si potranno osservare comportamenti diversi legati alle varie tipologie di investitori. a) I growth investor fanatici. Questi sono mossi dagli stessi fervori che muovevano i crociati nel Medioevo. Sono fedeli ai temi oggetto di bolla. Leggere la biografia di Cathie Wood può aiutare a capire questi soggetti. Non esistono considerazioni valutative, perchéé quello che comprano non ha, per loro, un giusto prezzo. Sono coloro che cavalcano la bolla fino ai picchi più fantasiosi, e l’accompagnano durante il ritorno alla dura realtà. b) I growth investor opportunistici. Questi si presentano come growth investor ma in realtà seguono il momentum, fiuto e buon senso. Sono smart, veloci a uscire e anche a rientrare. Vendono a clienti, colleghi, amici, familiari e pure a se stessi, le strabilianti qualità dei titoli e le infinite opportunità future che questi celano, ma in realtà rimangono distaccati e pronti a scaricarli alla bisogna. Dopo dieci anni di continua crescita borsistica del settore growth e tre anni di immaginifica bolla tendono, tuttavia, a essere più bolsi e meno veloci. Ogni volta che sono usciti sono rientrati più alti. Questo li porta a perdere abbastanza, prima di adattarsi alla nuova realtà. c) I value investor opportunistici. Questi sono stati per gran parte del tempo lontani dai titoli della bolla. Questo gli ha creato un certo mal di fegato. Gente senza né arte né parte produceva ritorni ragguardevoli, molto superiori ai loro, solo seguendo il gregge o piazzandosi passivamente su indici grondanti di growth. Per anni hanno anche dovuto ascoltare i pipponi sulle grandi opportunità che questo nuovo tema porterà. Per quanto impermeabili, un po’ di questa narrativa è permeata anche in loro. Una volta che il tema si disintegra e, apparentemente raggiunge valutazioni più comprensibili, questo investitore prima gioisce per il venir meno dell’ingiustizia subita, ma poi investe. E normalmente sbaglia. Infatti, le valutazioni apparentemente attraenti che vede sono completamente fittizie. Una bolla compromette il funzionamento stesso del mercato. Molta della crescita del fatturato è opera della bolla stessa. È proprio tale eccezionale crescita che porta ad un continuo rerating dei titoli, che, attirando più soldi e investimenti, produce ulteriore falsa crescita e rerating. È un castello di carte dove è difficile capire quanto ci sia di farlocco e quanto di concreto. Questo processo di auto-magnificazione ricorda il lavoro di Yayoi Kusama e le sue bellissime costruzioni di specchi (qui sopra). Pochi elementi e tanti specchi creano realtà tanto infinite quanto illusorie.

A quanto precede, poi si aggiunge, come più volte detto, la regolamentazione. Ricordiamo bene come le prime avvisaglie su antitrust e regolamentazione del settore digitale nel 2017/2018 portarono a timori e prese di beneficio. Le attuali notizie su questo fronte sono realmente allarmanti, ma il mercato pare anestetizzato. Grasso e indolente, abituato al guadagno fideistico, non ascolta. Tra poco saggerà le conseguenze.

I titoli oggetto di bolla che non falliscono, storicamente vanno nel dimenticatoio per lungo tempo. La sequenza di cattive notizie che lo scoppio di una bolla libera è incredibilmente lunga. Rimanendovi attaccati si rischia di compromettere un patrimonio o una carriera. Meglio trascurarli per un po’ e magari andare a riscoprire qualche settore oggetto di precedenti bolle e fino ad ora irrimediabilmente trascurato, come telefonici, finanziari, utilities, ADAS, produttori di celle al litio, infrastrutture IT (local e hybrid, opposte al cloud puro), giornali, broadcaster, retailer, etc. Senza dimenticare le bolle geografiche ancora più remote, come quella giapponese, coreana e indonesiana degli anni ’90, aree che dopo oltre vent’anni di purgatorio oggi presentano opportunità di investimento molto belle e sane. Alternativamente, per gli investitori growth duri e puri, meglio attendere che il Nasdaq continui a ripulirsi dai titoli oggetto della recente bolla e dai suoi investitori estatici, per ripopolarsi con nuove società e nuovi trend, oltre che con investitori più pragmatici e cinici. Processo che riteniamo necessiti di parecchia pazienza. Intanto per i trader dinamici e capaci ci sono soldi da fare durante i poderosi rimbalzi.

 

 

 

The blue hole

“The Blue Hole” è una famosa, quanto affascinante, depressione marina, a circa 70 km dalle coste del Belize. Oltre che affascinante e famosa, questa depressione è decisamente pericolosa, e quasi 200 persone vi sono morte negli ultimi 15 anni. Infatti, forti correnti, riflessi ingannevoli, grotte profonde e infide creature marine, presentano grandi rischi anche per i sommozzatori più esperti.

The Blue Hole ci ricorda tanto i deficit pensionistici aziendali. Questi buchi finanziari senza fine hanno la capacità di strangolare lentamente le imprese. Ed è quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni. Il sistema “defined benefit” usato in passato tende ad aumentare e ridurre il surplus o il deficit pensionistico delle aziende a seconda della variazione delle collegate attività e delle passività. Tuttavia, le passività, ossia le future pensioni da pagare, tendono ad essere particolarmente sensibili ai tassi di interesse, usati per scontare i flussi di cassa che andranno ai dipendenti. Se tanto baccano viene fatto per allertare gli investitori su questi rischi pensionistici, poco rilievo viene dato quando, grazie ai tassi, queste passività migliorano. Negli USA, per esempio, il deficit pensionistico aziendale si e’ ridotto di quasi 200 miliardi di sollari nell’ultimo anno e la copertura ha raggiunto il 98%, un livello non visto dal 2007.

Nella vecchia Europa abbiamo British Telecom, la società con il più grosso fondo pensione in UK, che a inizio 2021 mostrava un deficit pensionistico di circa 7 miliardi di sterline che un anno dopo, a fine marzo 2022, è sceso a 1 miliardo. Abituati alle cifre della nuova economy sul Nasdaq, dove società che non fanno un picco valgono ancora oggi molte decine di miliardi di dollari, tutto questo sembra poca roba. Tuttavia, per BT, società con circa 100k dipendenti e la proprietà del network telefonico fisso britannico, questi 6 miliardi di sterline rappresentano circa 1/3 della sua market cap. Per E.ON, 70k dipendenti, il risparmio sul fondo pensione negli ultimi 18 mesi rappresenta il 25% della market cap. Per Atos, 111k dipendenti, questa differenza rappresenta oltre il 35% della market cap. Per Volkswagen, 670k dipendenti, il 20%. Tanta roba, perbacco!

Se poi si considera questa riduzione significativa di debito, insieme agli utili non distribuiti (o alle perdite realizzate) e a circa il 10% di inflazione degli ultimi 18 mesi (stiamo parlando di società con real asset), BT rispetto a gennaio 2021 e’ scesa del 20% (contro il +20% da listino). E. ON e’ scesa del 30% (contro +10% da listino). ATOS e’ scesa di oltre l’80% rispetto al -66% da listino. Volkswagen è scesa quasi del 40% contro una discesa del 5% da listino. E si potrebbe continuare… Insomma, aggiustate per fondo pensione, utili non distribuiti e inflazione degli ultimi 18 mesi, molte società della old economy presentano un profilo eccezionalmente value e sono molto più vicine di quanto appaia al buco del marzo 2020, pur con prospettive decisamente migliori di allora.

 

 

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19
Apr
2022
Addio alla Nicchia “Neglected Luxury”
Posted On aprile 19, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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La Nicchia era presente al lancio del fondo Asian Niches nel febbraio 2019 e ha sempre avuto un peso all’interno del fondo tra il 3 e il 5%, con un‘allocazione massima fissata al 5%. Insieme alla Nicchia Internet Victims, rappresenta la meno asiatica delle Nicchie del fondo Asian Niches.

La Nicchia è stata particolarmente volatile e ha performato appena decentemente dalla partenza, registrando una performance del 14%.

La Nicchia era composta alla partenza da cinque sotto-Nicchie:

  • Viaggi di lusso
  • Beauty and Personal care
  • Fashion&Watches
  • Auto di lusso
  • Champagne e vini prestigiosi

I Viaggi di lusso hanno avuto un andamento molto altalenante a causa di Covid e della guerra. La piccola posizione nella linea di crociere Carnival ha purtroppo perso soldi. Tuttavia, il titolo qui più pesato, il gruppo Mandarin Oriental, un nome che i lettori più viziati conosceranno bene, ha ben fatto grazie al brand e al patrimonio immobiliare.

Beauty&Personal care era composta da un unico titolo, Nu Skin, una dinamica società multilevel con un prodotto molto alto e innovativo. Crediamo che la società possa fare ancora bene, ma abbiamo preso il modesto profitto, reso un po’ meno modesto dalla forza del dollaro.

Su Fashion&Watches abbiamo fatto qualche soldo comprando sulla debolezza Hugo Boss e mantenendo e incrementando Swatch Group.

Le Auto di Lusso, sebbene molto volatili, hanno contribuito a gran parte dell’upside della Nicchia. Società come Daimler, Volkswagen, Harley Davidson e BMW hanno molto ben performato. Qui abbiamo preso profitto e su queste società manteniamo una piccola esposizione attraverso il fondo Electric Mobility Niches. Questi titoli, sebbene ora fuori momentum, rimangono estremamente value. E ci servono indirettamente anche a ricordare come la bolla growth sia ancora lungi dall’essere rientrata.

A questo riguardo ci permettiamo una digressione fuori tema. Infatti, i dati annuali del beniamino cinese della mobilità elettrica, NIO (ma potremmo dire Xpeng o Lucid o altri), hanno coinciso con quelli di BMW. I due titoli trattano, rispettivamente, al 70% e il 20% dai massimi, toccati per NIO all’inizio del 2021 e per BMW all’inizio del 2022. Sui massimi NIO valeva circa 100 bln USD e BMW 67 bln USD. Oggi le due società valgono rispettivamente 35 bln USD e 54 bln USD. Per chi ama comprare i titoli che sottoperformano Nio sembrerebbe il player su cui scommettere… E infatti troviamo studi di analisti con titoli come “NIO down 66% with supercharged growth, time to buy”. Wow!

Guardiamo i risultati delle due società.

  • Nio ha venduto nel 2021 92k veicoli (chiaramente tutti elettrici) con un incremento del 109% rispetto al 2020. BMW ha venduto 328k veicoli elettrificati nel 2021 (BEV+PHEV, di cui BEV 108k), con un incremento del 70% rispetto al 2020. Nio cresce di più, ma BMW vende circa 3x il numero di veicoli elettrificati di NIO, e 1x quelli elettrici puri. Direi un punto per BMW.
  • BMW vende anche veicoli non elettrificati. Non durerà per sempre, ma intanto li vende e ci fa soldi. Compreso questi, BMW ha venduto oltre 2,5 milioni di veicoli (+200k moto) nel 2021. Un altro punto per BMW.
  • Nio ha realizzato vendite per 5.2 bln USD nel 2021, con una crescita del 118.5% rispetto al precedente anno. La crescita di BMW è molto più bassa, 12,4%, ma con un fatturato circa 24 volte maggiore (circa 120 bln USD). Un altro punto per BMW.
  • Nio ha realizzato perdite pre-tasse per il 2021 per circa 630 mln USD, e per gli azionisti ordinari la perdita è stata addirittura di 1,6 bln USD. BMW ha realizzato un profitto pre-tasse per circa 18 bln USD. Un altro punticino per BMW.
  • Nio ha net cash (industrial) a fine 2021 per circa 3 bln USD. BMW ha net industrial cash per circa 28 bln USD (quasi il 50% della market cap). Credo ancora meglio BMW.
  • Nio investe molto in R&D e per il 2021 ha investito 720 mln USD. Anche BMW investe molto, e per il 2021 ha investito 8.5 bln USD, 11x quello che ha investito NIO. Un altro punto.
  • Nio FCF 2021 dovrebbe essere negativo per 1 BLN USD, mentre quello di BMW dovrebbe essere positivo per 8 BLN USD (e nel 2022 potrebbe superare i 10 BLN USD). Ancora un punto

Volendo valutare Nio come la divisione EV di BMW, nonostante questa venda molte meno auto, e ipotizzando che tale divisione di BMW non faccia utili come Nio, ne deriva che il resto di BMW sarebbe valutata 19 BLN USD, ossia un P/E di meno di 1,5x. O Nio è valutata troppo oppure bisogna vendere la casa e il fondo pensione per comprare azioni BMW!!!

Non vogliamo qui spingere BMW (comunque bellissima società), ma focalizzare l’attenzione sulla valutazione di NIO, Xpeng, Lucid etc che rimangono terreno per gli short. Per coloro che vorrebbero invece andare long, magari sulla considerazione che questi titoli hanno perso il 70% dai massimi, consigliamo di lasciar perdere e piuttosto pensare ad investire in un prodotto come lo champagne, sì lo champagne, sia attraverso azioni dei maggiori player che attraverso il prodotto stesso. L’ETC sullo champagne non esiste ancora, tuttavia a qualche ora di auto le cantine non mancano… E può risultare un modo molto più gioioso per godersi questa primavera iniziata già male, piuttosto che sperare in improbabili recuperi di Nio e company.

Passando dalla cicoria al risotto, Tesla rimane una bellissima casa automobilistica e i suoi prodotti ci fanno impazzire. La società vedrà la sua market share crescere ancora molto e il modello Y è una macchina strepitosa e sarà un super successo. Qui il rischio di fallimento non esiste, tuttavia il rischio di derating del titolo è enorme. La società, a nostro avviso, sarebbe cara anche se valesse solo il 30% delle attuali valutazioni. Anche per gli azionisti di Tesla consigliamo di valutare di spendere almeno parte delle loro plusvalenze in champagne. Ma come sempre accade, chi è stato tanto bravo per tenerle fino a qui difficilmente guarda i fondamentali, e non prenderà profitto se non in una fase di panico.

L’analisi fondamentale nulla può fare contro il momentum e l’euforia. Queste agiscono come un incantesimo che protegge la fortezza contro forze apparentemente insormontabili, come il buon senso. Tuttavia, quando l’incantesimo si dissolve, nulla può essere più fatto per difendere la fortezza. A quel punto, la realtà trova, implacabilmente, la sua impietosa vendetta. Ben oltre quello che si può immaginare. Non c’è riparo. Non vi saranno superstiti. Addio Gamestop, addio meme stock, addio a tutto cio’ che non abbia un sottostante vero. La sveglia ha suonato. È ora di alzarsi, lavarsi, vestirsi e tornare nel mondo reale. Affascinante comunque, soprattutto se vi è dello champagne a portata di mano…

Arriviamo quindi alla sotto-Nicchia che negativamente ha più pesato sulle performance della Nicchia Neglected Luxury, proprio quella dello Champagne. Non nascondiamo che questa, proprio questa, sia la sotto-Nicchia a cui siamo più affezionati. In questa sotto-Nicchia ha ben performato Masi, che detenevamo come esponente dei vini di prestigio, in particolare il ciliegioso amarone. Invece, le tre società quotate esposte fortemente allo champagne si sono mal comportate (il più grosso player è LVMH, ma la società è quasi completamente dipendente dalle “eleganti” borse Louis Vuitton, mentre la parte champagne è marginale). Rimanendo estremamente positivi sul tema, creiamo oggi la Nicchia Champagne, una Nicchia puramente focalizzata su queste società dello champagne, dedicando a loro il 2,5% del fondo. Il restante 2,5% liberato con la chiusura della Nicchia Neglected Luxury lo aggiungiamo alla Nicchia Japanese Orphan Companies, le microsocietà giapponesi non coperte dagli analisti, quotate da decenni, piene di liquidità e con utili e dividendi che valgono una canzone. Aspettando che il mondo si ricordi di loro. Ne abbiamo già circa cento sul fondo Asian Niches e contiamo di aumentarne il numero. Sono tutte società con cui facciamo engagement diretto col management e per cui produciamo un’analisi ESG e una SDG.

 

Champagne, il litio elegante

Non c’è dubbio che lo champagne sia elegante, frizzante e a volte fruttato. Tuttavia, in questi ultimi anni, non sono queste le qualità per cui viene ricordato dai suoi poveri investitori, quanto piuttosto la sensazione di secchezza e di acidità che ha lasciato in fondo al loro palato, e nei loro portafogli.

Le società che producono champagne, come alcuni dei lettori ben sanno, possiedono uno stato patrimoniale particolare. Tra le attività hanno due poste grassottelle. La prima è costituita dalle attività materiali, in particolare le terre e le vigne. Ma anche le attrezzature per processare l’uva in vino e le enormi (e antiche) cantine per farlo invecchiare. La seconda è costituita proprio dal magazzino, ovvero le bottiglie che stanno fermentando (semilavorati) e quelle in invecchiamento. Dall’altra parte, tra le passività, abbiamo il debito, normalmente enorme, che copre il magazzino.

20 years+ chart of Vranken Pommery

Il debito è un debito bancario, con finanziamenti di lungo a tasso fisso e variabile. Questo solo gradualmente risentirà dell’aumento dei tassi. Il magazzino inevitabilmente beneficia dell’inflazione, in quanto questo è stato prodotto ben prima che l’inflazione emergesse. I terreni, le vigne e i fabbricati rappresentano asset reali, naturale rifugio contro l’inflazione.

Come avemmo l’occasione di spiegare, lo champagne paga da ormai 15 anni un allineamento diabolico che si verificò nel 2007. In quell’anno l’economia volava e lo champagne scrosciava. Tuttavia, il numero di bottiglie producibili era allora, come ora, limitato da due fattori: i terreni di denominazione del prodotto (appunto lo Champagne) e il rendimento per ettaro. Entrambi questi fattori sono determinati normativamente e non possono essere superati. Nel 2007 il consumo di champagne sembrava destinato a salire astronomicamente e tale consumo, incontrando un numero finito di bottiglie producibili, inflazionò drammaticamente i prezzi, rischiando di privare alcuni transalpini della preziosa bevanda (i francesi consumano circa il 50% dello champagne). Questo senza neanche tenere in considerazione i mercati asiatici che gradualmente si stavano aprendo al prodotto, fino ad allora osteggiato per la sua secchezza (i cinesi amano gli alcolici dolciastri). I regolamenti vennero quindi cambiati, e il rendimento per ettaro alzato e la zona di denominazione allargata. Da un massimo di 300 milioni di bottiglie si potevano ora produrre 340 milioni di bottiglie di champagne all’anno. Poi ci fu la crisi, lo champagne non scrosciò più sulle tavole, ma si impilò nelle cantine. I prezzi dello champagne crollarono insieme a quelli dei titoli dei produttori, e fu il buio….

…fino al 2020.

Nel 2020 il crollo di consumo di champagne fu notevole a causa del Covid. Questo portò il governo a proteggere l’industria dalle perdite legate al Covid. Questo settore fu quindi meno stimolato a produrre per il 2021, e a questo si aggiunse anche il tempo, assai sfavorevole della stagione 2019/2020, e le limitazioni legate al Covid per l’utilizzo di personale. Tuttavia, nel 2021 la domanda rimbalzò a 322 milioni di bottiglie, superando i livelli del 2019, ma con un livello di produzione esigua e la necessità di andare ad intaccare le scorte. Nonostante la guerra in Ucraina, la ripresa del turismo dovrebbe ora aggiungere domanda. Intanto, il processo di lenta penetrazione dello champagne in Asia continua, promosso dagli investimenti in marketing di grandi maison come quelle detenute da LVMH (Moet&Chandon, Veuve Clicquot, Dom Perignon, Ruinart, Krug, Mercier).

Da evidenziare come:

  • Lo champagne ha una leva operativa sbalorditiva. Un aumento del prezzo del 10% può triplicare i profitti, visto che si parte da una marginalità esigua. Non essendo lontani dal massimo di bottiglie producibili, crediamo che ci possa essere spazio per un aumento significativo dei prezzi. Il primo passo potrebbe essere l’eliminazione delle campagne di vendita a prezzi scontati a cui siamo abituati.
  • Le società dello champagne trattano al patrimonio netto tangibile o sotto. Tuttavia, se aggiustiamo tale patrimonio per il prezzo di vendita della merce finita negli enormi magazzini il rapporto prezzo/patrimonio netto tangibile va assai sotto la parità.
  • Se poi consideriamo che il valore dei terreni, delle vigne e degli immobili al netto degli ammortamenti è pari o maggiore al patrimonio netto tangibile, i titoli rappresentano un chiaro asset antinflattivo.

Oggi è possibile comprare hard asset come lo champagne, a 10x gli utili, con utili in crescita, e P/TBV sotto 0,5x, in periodo di inflazione…

Con un po’ di pazienza, di litio, la risorsa del momento, ne potremo trovare a iosa. Lo champagne e’ limitato, oltre una certa quantita’ non si puo’ andare. Inoltre, a differenza del litio, lo champagne e’ buono e le societa’ che lo producono oggi le porti via con poco.

L’upside qui è sostanziale. Accettiamo il fatto che per molti dei lettori noi abbiamo perso di credibilità visto che aspettiamo la ripresa dello champagne da anni. Ribattiamo che proprio perché lo seguiamo da anni come dei babbioni possiamo oggi meglio percepire che siamo vicini all’inflection point. Wishful thinking? Maybe yes, will see..

En attendant, sante’!
 

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11
Apr
2022
Profumo di luce
Posted On aprile 11, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Molti sono i piatti gustosi la cui preparazione è semplice. Gli ingredienti sono tuttavia estremamente importanti, così come la loro corretta combinazione. La stessa cosa si può applicare ai mercati azionari. Qui sotto gli ingredienti per un piatto saporito e sano. Con poche calorie e potenzialmente un po’ di plusvalenze.

1/4 di evento geopolitico drammatico il cui picco è passato

1/4 di inflazione bella forte, da fattori passeggeri

1/4 di battutino di risparmi solidi del consumatore e una pipeline di forti investimenti in infrastrutture

1/4 tassi di interesse in normalizzazione e sistema finanziario solido

Governi supportivi, qb

Amalgamare bene il tutto, senza fretta. Prima di mettere in forno aumentare drasticamente i salari più bassi.

Aver cura di far scoppiare eventuali bolle “growth” che si presentano durante la cottura.

Servire con valutazioni del mercato tradizionale depresse, su un letto di paure di recessione e stagflazione ben fresche.

Va bagnato con qualcosa di frizzante e giovane, come voglia di spendere post-pandemia, vintage 2020 o 2021.

Gustare possibilmente dopo la vittoria di Macron e prima dell’ondata di dividendi in arrivo a maggio.

Buon appetito.

 

CartaSi, CartaNo

Un amico con grande esperienza mi ha manifestato la sua perplessità sull’andamento di Nexi. Il titolo dopo aver raggiunto i 18 euro per azione si è dimezzato in qualche mese, con una debolezza costante e preoccupante. Chiunque conosce bene il mercato sa che fasi di debolezza prolungate possono nascondere gravi problematiche, e quindi si chiedeva se vi potesse essere qualcosa di marcio nel titolo.

Incuriositi abbiamo dato un occhio alla società. Un’analisi approfondita richiederebbe più tempo, in particolare su un settore estremamente amato dal mercato e, come tale, da noi ignorato.

Quello che emerge da una nostra prima analisi è che:

  • La debolezza del titolo sembra riflettere la debolezza del settore. Qui sotto il grafico con Nexi, Worldline, Adyen e Paypal a un anno. Adyen e Paypal appartengono ad un’altra lega in termini di qualità, ma vediamo che anch’esse sono state oggetto di forte derating.

  • La società a inizio anno mostrava un premio considerevole verso i suoi diretti peer come si vede qui sotto. Oggi il premio si è parzialmente ridotto.

  • Nexi ha davanti a sé una serie di lock up in scadenza che potrebbero creare un flusso di vendite considerevole nei prossimi 12 mesi. Qui sotto lo specchietto che evidenzia che da gennaio 136 mln di azioni in lock up si sono già liberate.

  • Le guidance della società rilasciate in concomitanza dei risultati del quarto trimestre denotano una certa difficoltà a raggiungere i target prefissati che, a sua volta, indica forse un aumento di competitività nel settore.  Qui sotto le variazioni di stime di EPS per il 2022 (primo grafico) e 2023 (secondo grafico) negli ultimi mesi. Se questo lo accostiamo a valutazioni che a inizio anno riflettevano molta positività sulla crescita e a un debito sostanzioso, sebbene ad oggi non preoccupante, si può comprendere come mai qualcuno abbia ridotto l’esposizione

Oggi la società vale circa 10x l’EBITDA 2023 (EV/EBITDA) in linea con i suoi diretti peer (società come Adyen e PayPal hanno caratteristiche diverse e meritano valutazioni a premio su Nexi). La valutazione del titolo e del settore non può oggi essere ritenuta cara e il suo rerating o derating sarà legato alla conferma o meno della crescita degli utili. Dato per scontato che le transazioni digitali aumentano la crescita degli utili dipenderà nel breve dalle pressioni competitive nel settore e, un po’ più avanti, da eventuali rischi legati a cambiamenti tecnologici. Come in tutte le bolle, prima avviene il derating massiccio e apparentemente incomprensibile e poi, gradualmente, emergono i problemi. Crediamo che i titoli legati ai temi che sono stati oggetto di bolla vadano trattati con grande cautela perché il processo di aggiustamento dura di solito degli anni, non mesi. Lo stesso ottimismo che crea le bolle porta poi a un eccesso di player, acquisizioni fatte a prezzi ottimistici, attenzione del regolatore e stimoli a cambiamenti tecnologici. E si passa spesso da essere vergognosamente cari ad essere vergognosamente cheap.

 

CartaSi, CartaNo (2)

Noi gestori di campagna troviamo il settore dei pagamenti digitali abbastanza complesso. Tanti i player e i ruoli. Issuer, acquirer, gateway, processor… Solo apparentemente vi sono grandi player inattaccabili. In realtà, escludendo gli issuer (VISA ed etc) gli altri ruoli sono vulnerabili. Un esempio viene proprio dalla piccola Adyen che in pochi anni anni è diventata un colosso una spanna sopra gli altri, grazie ad un software più veloce ed efficiente ed una strategia intelligente.

Vi è poi un altro problema. E questo riguarda anche gli issuer. Non è detto che il futuro dei pagamenti sia legato al circuito delle carte di debito/credito. I costi di interconnessione non piacciono ai merchant e la tecnologia migliora. Modelli ACH (automated clearing house) e BNPL (Buy Now Pay Later) rappresentano alternative interessanti pur con qualche difetto. Anche circuiti che usano la blockchain come quelli delle crypto potrebbero essere un’alternativa, sebbene presentino anche questi alcuni problemi, di costo e velocità. Tuttavia, le cose potrebbero cambiare velocemente.

Per concludere, non siamo certi che titoli come VISA o la stessa Adyen, leader nei rispettivi mercati, meritino valutazioni estremamente generose come quelle attuali, in considerazione dei tanti rischi presenti nel settore.

 

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21
Mar
2022
Addio peluche?
Posted On marzo 21, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Siamo cresciuti con l’idea che il mondo democratico fosse ben organizzato. Affidato a uomini e istituzioni capaci e responsabili. Equilibrate e giuste. Che la “governance” fosse corretta e ben definita. Così tuttavia non è. Il livello di pressapochismo, ignoranza, inefficienza e disonestà è strabiliante. Molte delle istituzioni internazionali che vantano tanta credibilità sono in realtà dei carrozzoni inetti ed inutili, alla mercé di interessi economici e politici. In un contesto del genere non ci si stupisce che l’avidità organizzata sotto la forma di corporation/business prevalga, controllando i gangli del potere e la vita stessa di miliardi di persone.

L’unico spiraglio di luce per la democrazia di oggi è dato dall’analizzarne l’alternativa: l’autocrazia. Questa rende gli attuali difetti delle democrazie inezie. La democrazia, per quanto imperfetta, rappresenta l’unica forma organizzativa adeguata. Va migliorata per renderla sostenibile.

Una democrazia che non rappresenta le istanze della maggioranza dei cittadini porta inevitabilmente a rigurgiti nazionalistici. Lo abbiamo visto recentemente negli USA, così come in Europa e altrove. Economisti quali Stiglitz, Krugman e Korten, che intravvedevano in un capitalismo troppo selvaggio rischi per la democrazia, sono stati spesso messi da parte. Vengono oggi riletti e riapprezzati.

Non si può negare che la globalizzazione abbia avuto effetti positivi. Grazie a questa, buona parte della povertà nei paesi emergenti è stata sconfitta (vedi grafico sopra) e l’età media di vita si è alzata considerevolmente.

Tuttavia, la sua estremizzazione ha avuto per l’Occidente un costo che ora si dimostra eccessivo, in particolare per i più deboli e numerosi, come si vede nei due grafici qui sopra. Questo costo ha rischiato di far sprofondare l’Occidente nel buio dell’autocrazia. Di aprire una lunga fase di stallo nel cammino del progresso, come fu il medioevo. Tuttavia Covid e invasione ucraina hanno aperto una nuova fase. Una fase di deglobalizzazione necessaria e inevitabile. Che riporterà manifattura, investimenti e posti di lavoro in Occidente. I perdenti saranno le autocrazie nei paesi emergenti, le grandi corporation occidentali che vendono (e producono) nei paesi emergenti e i grandi e piccoli trader che profittano grandemente dai grassi margini legati alle importazioni dai paesi emergenti. L’Europa, così come gli USA, ha stanziato grandi fondi per aiutare i paesi emergenti, per il loro sviluppo economico e democratico. Le opportunità per le corporation occidentali dovranno andare di pari passo allo sviluppo democratico dei paesi dove investono.

Nel novembre 2019 fu pubblicato il libro “Meeting Globalization’s Challenges”, una raccolta di pezzi di economisti illustri sul tema della globalizzazione. L’introduzione fu lasciata alla Christine Lagarde, allora Direttore Generale dell’IMF, una delle istituzioni internazionali più autorevoli e più criticate. Proprio la sua introduzione è una riproposizione edulcorata della narrativa offerta negli anni ’90 e inizio 2000 sulla bontà della globalizzazione. Diversi i riferimenti a paper di dubbia qualità e trasparenza che dimostrano come la globalizzazione non porti alla perdita di lavoro nell’Occidente. Più trasparente, invece, ma altamente opinabile, la descrizione di come re-training e ammortizzatori sociali avrebbero difeso i più deboli in Occidente dalla globalizzazione. Pur ammettendo diversi errori, la Lagarde, inevitabilmente, ancora nel 2019 difendeva la posizione dell’IMF, scritta dagli USA anni sotto dettatura delle grandi corporation, prime beneficiarie della globalizzazione. Sappiamo che la propaganda non esiste solo in Russia.

Uno dei pezzi contenuti nel libro appartiene proprio al premio Nobel Paul Krugman, uno degli esponenti del capitalismo sostenibile.

Qui l’economista riconosce il suo errore quando, negli anni ’90, appoggiò il processo di globalizzazione, difendendolo dalle accuse di coloro che affermavano che avrebbe aumentato le disparità sociali e impoverito l’Occidente. In effetti la globalizzazione si trasformò presto in ciò che alcuni economisti rinominarono “iperglobalizzazione”, responsabile tra il 1998 ed il 2005 della perdita del 10% della forza lavoro nel settore manifatturiero nell’Occidente, oltre 10 milioni di persone. Numero che è continuato a salire fino ad oggi, con danni sul tessuto sociale dell’Occidente e sulla sua supply chain.

L’Europa politica oggi è finalmente unita. Le atrocità in Ucraina e, ancor prima, la poca trasparenza della Cina legata al Covid, hanno scosso opinione pubblica e politica. Anche le corporation stanno comprendendo che il perseguimento dell’utile nel breve potrebbe creare grandi problemi nel lungo. Oggi vi è un allineamento totale. L’iperglobalizzazione è finita e andiamo verso un percorso di investimenti domestici sostanziosi, che creeranno posti di lavoro e sosterranno la dinamica salariale e il potere d’acquisto. Alcune corporation ne soffriranno, ma poi ritroveranno in Occidente parte della crescita persa nei paesi emergenti. Paesi come Cina, India e Medio Oriente, che hanno implicitamente approvato i massacri e la violazione di territorio sovrano in Ucraina, verranno toccati da questo cambio di prospettiva.

Oggi l’Europa ha un deficit commerciale con la Cina di oltre 300 miliardi di USD. Non sono solo inutili orsacchiotti di peluche o camicette in acrilico, ma in buona parte sono macchinari evoluti (vedi grafico qui a destra). Buona parte di questi dovranno essere in futuro prodotti in Occidente.

Le luci del rinascimento sembrano ora prevalere sulle ombre medievali. Se così fosse, ci aspettiamo anni di buona crescita in Europa, riassorbimento del debito accumulato durante il Covid, unione fiscale e politica. Dall’altra parte dovremmo dire addio a magliette e peluche usa e getta. Con significativi benefici per l’ambiente.

 

Illusioni ottiche

Molto funziona sinusoidalmente. Diremmo tutto, quando ci sono esseri umani coinvolti. Il mercato ce lo insegna quotidianamente. Lo scorso week end la speranza di un cessate il fuoco in Ucraina sembrava crescere. Questo week end sembra ridursi. Dai giornali riemergono paure, sebbene remote, di utilizzo da parte dei russi di testate atomiche tattiche o di armi chimiche. Il successo dell’esercito ucraino viene messo in discussione. La risolutezza di Putin a continuare la guerra, come da lui stesso affermato durante la recente manifestazione pro-guerra a Mosca, sembra cosa certa. La volontà dei cinesi ad appoggiare i russi, velatamente confermata da Xi nella video-chiamata con Biden venerdì, appare pericolosa.

In realtà così non è.

 

Pere Borrell del Caso – Escaping Criticism, 1874. Oil on canvas. Collection Banco de España, Madrid

Quello che vediamo oggi è un braccio di ferro in vista di un accordo a cui mancano poche righe per essere firmato. Putin deve salvare la faccia. La Russia chiede la neutralità dell’Ucraina (un enorme passo indietro rispetto alla “denazificazione e demilitarizzazione del paese”), il riconoscimento della Crimea come parte della Russia e il riconoscimento delle due regioni del Luhansk e Donetsk come stati indipendenti. L’Ucraina accetta la neutralità, ma non riconosce l’esproprio della Crimea e l’indipendenza delle due Repubbliche. D’altronde l’esproprio con la forza non potrà mai essere accettato per una questione di principio internazionale. Inoltre, migliaia di vite umane sarebbero state sacrificate per nulla. Quindi un accordo che verte sull’indipendenza della Crimea (che la sua popolazione approverebbe con referendum, come avvenuto in molti paesi in passato) e una forma di autonomia spinta delle due Repubbliche è probabile. Infine, i danni di guerra. Qui il braccio di ferro è serrato, ma verranno concessi contro un rilassamento delle sanzioni. Crediamo che la Russia non possa permettersi politicamente di continuare la guerra ad oltranza. Per questo è importante faccia sembrare possa farlo, per avere più forza nelle trattative. Inoltre, la conquista di Mariupol e quindi dell’accesso al mare, dalla Crimea alla Russia, è fondamentale. La sua restituzione può essere materiale di scambio al tavolo degli accordi. Quanto alla Cina, questa non vuole indebolire la posizione di Putin ora che sta negoziando. Ma sicuramente esercita pressione per una chiusura delle ostilità. La Cina deve assolutamente evitare di essere tagliata fuori dall’Occidente, Occidente che già sembra propenso a farlo (si veda articolo precedente). La notizia confermata che la Cina ha negato ricambi per aerei alla Russia va in questa direzione. Il soccorso al mercato offerto giovedì dal governo cinese esprime forte disagio e crescente preoccupazione.

Non possiamo dire quanto ci vorrà ma crediamo che un cessate il fuoco sia vicino. E gli ultimi giorni prima del cessate il fuoco saranno quelli in cui le forze russe lanceranno l’ultimo attacco, il più feroce. Questa fase è già iniziata.

Putin salverà la faccia. Venderà probabilmente i danni di guerra da pagare come aiuti per il paese amico devastato dalle pressioni della Nato. Tuttavia, gradualmente la verità uscirà fuori. Intanto la popolazione Russa ne risentirà drammaticamente, nonostante molte delle sanzioni saranno nei prossimi mesi tolte. Questo potrebbe portare entro un paio d’anni all’uscita di scena di Putin, in modo non dissimile da quella che fu la dipartita nel 1999 di Boris Eltsin. Una dipartita apparentemente volontaria, ma in realtà obbligata. Cio’ dovrebbe segnare l’inizio della ripresa per questo enorme Paese e per la sua sfortunata popolazione, che negli ultimi 25 anni non ha beneficiato della crescita globale. Il grafico qui a fianco mostra la crescita di PIL di Cina e Russia in questo periodo.

Quanto alla recessione che tanti si aspettano, crediamo sia molto improbabile. Guardando la TV ci si rende conto del danno all’economia nei paesi europei. I media creano molta ansia. Questo danneggia la domanda aggregata. Tuttavia, non possiamo non notare quanto il venir meno delle restrizioni covid porti la gente ad uscire e spendere. La primavera è iniziata e questa tendenza aumenterà. Le temperature salgono ed il prezzo del gas naturale crollerà. L’offerta di petrolio rimane abbondante, il suo prezzo riflette la speculazione. Infine, sulla scia di questa ansia, che prende come sempre anche le istituzioni, nuove politiche fiscali verranno implementate e manifesteranno i loro benefici ben oltre la fine della guerra. L’unica cosa (apparentemente) positiva che circola è che i tassi BCE non saliranno. Anche qui non siamo d’accordo. I tassi saliranno presto, fortunatamente.

In definitiva, crediamo che eventuali fasi di forte negatività del mercato possano essere buone opportunità per incrementare la propria esposizione all’equity, in particolare la componente value, la più colpita in questa fase in quanto generalmente più legata alla crescita dell’economia. Questo sempre nell’ambito di un’allocazione bilanciata, che tiene in debito conto profilo di rischio del prodotto/investitore e nel rispetto della diversificazione, che deve sempre essere significativa.

 

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14
Mar
2022
Caro signor Cheicheiar
Posted On marzo 14, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Caro signor Cheicheiar,

sono un bambino di 10 anni. Quando nacqui il nonno mi regalò parte delle sue azioni di Telecom Italia. Azioni di risparmio che, mi ha detto il nonno, danno sempre il dividendo che mi potrà essere utile un domani per pagarmi gli studi. Ma io vorrei comprarmi la PlayStation.

Il nonno le comprò quasi 20 anni fa per la sua vecchiaia, ma quando me lo ha raccontato ha fatto un’espressione strana.

Io non so molto di azioni, ma mi piacciono. Il papà ne va matto e la domenica passa il tempo a leggere i giornali di finanza. La mamma non sembra contenta. Lei preferirebbe andare da Ikea o Zara. 

Il papà mi ha detto che le azioni che mi ha regalato il nonno non sono buone. Dice che il nonno è anziano e non capisce tanto di azioni. Papà dice che le azioni del nonno sono scese tanto e che farei meglio a venderle e comprare eppol. Questo mi ha molto rattristato. Anche perché sembra che quello che mi è rimasto non basti per comprare la PlayStation.

Il nonno dice che la società ci fa parlare al telefono. Con la mamma, la Zia Ginetta, e la Zia Assuntina. E ci fa anche guardare Disneyplus, che mi piace parecchio. Tutto questo, dice il nonno, al costo mensile di un pranzo in rosticceria sotto casa. Mi piacciono tanto i peperoni ripieni che fanno lì.

Questo credo sia positivo. Parlare con le zie e guardare Disneyplus quanto vuoi, al costo mensile dei peperoni ripieni, il gelato e un’orzata mi pare bello. Il papà risponde che però a questi prezzi Tim non ci guadagna, ma non possono aumentarli per colpa del signor Regolatore. Non ho capito bene chi sia, ma credo sia cattivo, perché punisce le società brave.

Il papà dice che gli unici che ci guadagnano sono i capi della Tim. Stanno per poco tempo e guadagnano milioni. Vorrei che il papà fosse capo della Tim.

Papà poi dice che lei, signor Cheicheiar, vuole comprare Tim pagandola molto più di quello che vale ora. Tanto che ci ricaverei i soldi per la PlayStation. Non so bene perché lo fa, ma ne sono felice. Lei è buono.

Allo stesso tempo l’attuale capo della Tim, signor Alessio, e i suoi amici che comandano con lui nel brd, dicono che la società vale quasi 5 volte quello che vale ora e quasi 3 volte quello che ha offerto lei signor Cheicheiar. Ma se vale così tanto perché se la vendo non riesco neanche a comprarci una PlayStation? Non capisco tanto la differenza tra il prezzo e il valore. Per la PlayStation i due valori sembrano coincidere.

Ho chiesto al papà perché qualcuno può dire che l’offerta è bassa anche se ammonta al doppio del prezzo a cui posso vendere le azioni oggi. Lui non mi ha risposto.

Il nonno ieri mi ha detto poi che il capo di Tim ha deciso di non pagare il dividendo alle mie azioni di risparmio altrimenti ci pagava le tasse. A parte che pagare le tasse il nonno dice che è giusto per far funzionare gli ospedali e la polizia, mi chiedo se il capo di Tim si abbassa lo stipendio per non pagare le tasse. Certo che è strano questo signore. Anche più strano del signor Regolatore.

Io, signor Cheicheiar, sarei tanto felice che lei comprasse Tim e ci guadagnasse tanto. Io continuerei a parlare con le zie a cui voglio bene. E comprerei la PlayStation. 

Distinti saluti

 

Ucraina e Cina

 

Edvard Munch “Anxiety” (1894)

Mentre i bombardamenti straziano le città ucraine continua il tam tam mediatico che crea ansia e volatilità. Il mercato crediamo teme oggi due eventi. Il primo è un allargamento del conflitto alla NATO. Il secondo è che le sanzioni si estendano anche alla Cina, rea di aiutare la Russia. Nel primo caso parlare di asset allocation non ha molto senso, mentre avrebbe senso iniziare ad organizzarsi per spostarsi in montagna o in cantina. Nel secondo caso la recessione sarebbe certa. Come abbiamo già detto, sebbene errori siano sempre possibili, crediamo il primo scenario molto improbabile per le conseguenze che porterebbe. Crediamo anche improbabile il secondo scenario che vedrebbe una Cina con crescita economica negativa che, a sua volta, porterebbe rischi alla stabilità del regime cinese. In Cina i cittadini rinunciano alla democrazia in cambio del viaggio verso il benessere. Oggi il benessere è tuttavia concentrato su una minoranza ed è obiettivo di Xi Jinping redistribuirlo. Una recessione peserebbe proprio sui più deboli (che sono anche i più numerosi e i più arrabbiati).

Se la probabilità dei due eventi col passare del tempo si allontana, riteniamo che il mercato possa tornare lentamente verso la normalità. Il petrolio e il gas gradualmente scenderanno e così le materie prime. E le azioni, in particolare quelle value, recupererebbero. Anche se il conflitto dovesse cronicizzarsi.

Se poi vi fosse a breve un cessate il fuoco credibile allora il riaggiustamento sarebbe rapido. Ma per ipotizzare questo ci rendiamo conto ci vuole un certo ottimismo, elemento che a noi comunque oggi non manca…

 

Cybersecurity e paranoia

Il nostro IT ha deciso che un attacco informatico di matrice russa è impellente e che dobbiamo rafforzare ulteriormente i presidi. È questa l’aria leggermente paranoide che gira ora nell’ambiente e noi, sebbene titubanti, ci adeguiamo. Il danno, sebbene remoto, sarebbe troppo alto altrimenti. Tra poco non ci sorprenderemmo se tabaccherie e negozi di profumi iniziassero ad installare programmi e processi di cybersecurity.

Atos, società di consulenza IT di cui abbiamo parlato più volte e che passa una fase di transizione difficile (è recentemente uscita con l’ennesimo profit warning), ha una divisione che si chiama BDS. La sigla sta per big data e cybersecurity. Questa divisione è considerata uno dei leader nella cybersecurity e chiaramente risulta la prima scelta delle migliaia di clienti delle altre divisioni di Atos. La divisione BDS registra vendite per circa 1,5 bln euro ed è stata valutata dai 3 ai 4 bln euro. Recentemente ha ricevuto un bid iniziale da Thales di 2,7 bln euro che è stato rifiutato.

Valutiamo la divisione BDS sulla base di quanto offerto da THALES. Valutando anche la divisione infrastrutture di Atos al 50% di dove sta il mercato (ossia solo 0,1x le vendite), la divisione digitalizzazione con uno sconto del 40% di dove sta il mercato (ossia 1x le vendite) e sottraendo il modesto debito, il titolo varrebbe circa 60 euro per azione. Con ipotesi caute. Oggi ne vale invece solo 25. Se si vuole investire nel crescente timore di guerra informatica, la povera e straziata Atos sembra essere il player value di qualità con uno dei profili rischio/beneficio più attraenti su base globale.

 

 

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07
Mar
2022
Europa, ora o mai più
Posted On marzo 7, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Sono momenti difficili. Come esseri umani e come investitori. Negli ultimi due giorni abbiamo visto chiari segnali di market dislocation in Europa. L’Europa soffre per essere fisicamente vicino all’Ucraina. Questo comporta chiaramente maggiori ripercussioni economiche, oltre che timori di un possibile coinvolgimento diretto. L’attacco ad una centrale nucleare ucraina, seguito da uno scambio di minacce tra Nato e Russia, ha molto aumentato lo stress del mercato e ha portato ad un indiscriminato sell-off che, a sua volta, ha innescato vendite tecniche in un mercato azionario che, oggi, vede la prevalenza di gestori di capitali che seguono approcci quantitativi, quindi momentum. Ricordiamo che l’Europa era stata negli ultimi mesi un’area di riscoperta per investitori americani e asiatici. Inoltre, l’Europa è un mercato azionario più tradizionale di quello americano, maggiormente esposto a società sensibili alla crescita dell’economia, crescita che viene ora messa in dubbio.

Come più volte detto, riteniamo che l’Europa sia una delle aree dove risiedono le migliori opportunità di investimento, non solo nel breve, ma anche e soprattutto nel lungo termine.

Guerra a parte, nel breve l’Europa si trova economicamente in una condizione migliore degli USA. Negli USA, infatti, la fiducia dei consumatori sta fortemente risentendo di mercato deboli, tassi in salita e commodities sotto pressione. In Europa il consumatore è meno sensibile ai mercati azionari, al prezzo della benzina e ai tassi, che comunque qui rimangono bassi. L’Europa sta oggi uscendo dalla pandemia sull’onda di politiche fiscali espansive, con alti risparmi privati e voglia di uscire, viaggiare e spendere. I fondi per la transizione energetica, la digitalizzazione e le infrastrutture (NEXTGeneration EU) iniziano a essere rilasciati. Gli utili societari stanno crescono e il sistema finanziario è molto solido.

Nel lungo, abbiamo già parlato come in Europa emergano trend potenti che possono tagliare lacci e lacciuoli che hanno tenuto l’area sotto pressione. Parliamo di politiche fiscali che mirano finalmente ad unire l’area e politiche industriali che porteranno al ritorno della manifattura, dell’agricoltura e della gestione della difesa all’interno dei nostri confini, e, con loro, Investimenti e piena occupazione. Di dinamiche salariali finalmente positive che creeranno domanda per beni e servizi di base, oltre che a una rivalutazione di asset dimenticati come l’alloggio, il capannone o il terreno in periferia. Allargare il beneficio della crescita a tutte le classi sociali porta enormi vantaggi economici, finanziari e politici, allontanandoci dai pericolosissimi nazionalismi, che possono condurre ad autocrazie e conflitti.

Rischi di conflitto nucleare? Abbiamo imparato a non scartare alcuna ipotesi ma, epicureanamente, riteniamo che in caso di guerra nucleare l’allocazione geografica non faccia molta differenza. Detto questo, riteniamo chiaramente l’ipotesi estremamente remota.

Paura di recessione? Come detto i fondi NEXTGeneration EU vengono ora rilasciati e il rilascio verrà probabilmente accelerato (appena pagati 7 bln euro alla Francia e a settimane è previsto il rilascio di 21 bln euro all’Italia). Il rientro fiscale, dopo l’enorme espansione fiscale pandemica, previsto per quest’anno verrà, se necessario, ritardato. Così il roll off del QE. Questo, insieme alle riaperture post-Covid, si unirà ai trend potenti europei di cui sopra. Una volta che la fase acuta del conflitto volge alla fine e la percezione del rischio di un suo allargamento si riduce, l’Europa tornerà al suo tran tran, in questi giorni quanto meno rallentato dalle tensioni in atto. Crediamo che la fase acuta non durerà ancora molto.

Infine, le valutazioni del mercato europeo prima del conflitto ben riflettevano la situazione di degrado sociale e politico che decenni di stagnazione avevano creato, offrendo potenziali di rerating sostanziali. Oggi questi potenziali sono parecchio aumentati, cortesia di panico e flussi legati ad un evento esogeno quale la guerra.

Crediamo che il poderoso bull market americano sia giunto al termine. Il periodo in fronte a noi è stato da alcuni, come Michael Hartnett, Chief Global Strategist di BoA, comparato con l’entrata negli anni ’70, periodo che con la situazione attuale condivideva tensioni geo-politiche, crisi petrolifera, ripresa dell’inflazione e valutazioni molto distanti tra value e growth. Il mercato nei successivi dieci anni si mosse lateralmente, ma le small caps e il value fecero estremamente bene. Il growth, che partiva da valutazioni piene e che normalmente soffre della riduzione di liquidità legata al rialzo dei tassi e rientro dell’euforia, fece molto male.

Sebbene soffriamo molto della volatilità di questi giorni siamo soddisfatti con il nostro sovrappeso di azioni value europee e crediamo che questa fase rappresenti un’occasione importante per chi volesse qui aumentare l’esposizione, nell’ambito della propria asset allocation.

Europa, ora o mai più.

 

 

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28
Feb
2022
Un mondo diverso
Posted On febbraio 28, 2022  By Marius Iordan  And has No Comment

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Prima di tutto, fuori di retorica, ci sentiamo vicini alla popolazione ucraina, persone che vedono le prospettive per loro e i loro cari drammaticamente cambiare nel giro di ore. Senza un’apparente ragione. Sono cose che vediamo nei film o leggiamo nei libri. Che appartengono a periodi storici lontani o terre remote.

La nostra storia, la storia dell’uomo lungo i secoli e i millenni, non è altro che l’avvicendarsi di una serie di grandi cambiamenti. Buona parte di questi cambiamenti sono rappresentati da conflitti. Godiamo tuttavia del privilegio, troppo spesso non riconosciuto, di vivere in un’epoca e in un’area geografica dove le ultime tre generazioni non hanno mai incontrato la guerra. Questo sembra ora finire. Vederla sfiorare le nostre porte, in città e territori a noi vicini, fa effetto e fa riflettere. Ed è per questo che crediamo che il 24 febbraio 2022 rimarrà come una data storica, non distante dal crollo del muro di Berlino, la rivoluzione Russa, la rivoluzione francese, Pearl Harbour, o lo smantellamento dell’Unione Sovietica da parte di Mikhail Sergeyevich Gorbachev, momenti dove gli equilibri politici del mondo vengono strutturalmente a cambiare. Questo porta rischi, ma anche opportunità.

In un settore come quello finanziario che fa della dietrologia un mantra, noi non abbiamo alcun problema ad ammettere che attribuivamo poche probabilità a quanto successo, ossia una completa invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Questo sebbene l’avessimo chiaramente considerato uno dei possibili scenari. La nostra idea partiva dal fatto, come già scritto nelle scorse settimane, che un’invasione avrebbe comportato delle conseguenze che neanche la Russia di Vladimir Putin avrebbe potuto sopportare: la “cubanizzazione” del Paese. Abbiamo sbagliato. Anche in passato abbiamo sbagliato su Putin e questo ci ha portato nel tempo a decidere di non investire più direttamente in Russia fino a che la leadership non venga cambiata. Non manca molto.

Putin va al governo nel 1999, eletto a seguito di una ventata di nazionalismo durante una fase economica finanziaria molto difficile per la Russia, fase che i lettori con qualche capello grigio come noi ricordano bene. Troppe volte abbiamo visto come recessioni prolungate e/o profonde e/o l’aumento estremo delle diseguaglianze vadano a braccetto con l’estremismo politico. Approfondire la storia permetterebbe alla politica di comprendere meglio come assistere Paesi in forte difficoltà rappresenti non soltanto, umanamente, un imperativo categorico, ma anche, egoisticamente, un imperativo ipotetico, ossia un’assicurazione per il futuro benessere della propria nazione.

Il giovane Putin inizia ad applicare le metodologie KGB nella politica tradizionale, organizzando una serie di attentati interni per giustificare una seconda guerra contro i separatisti ceceni che avevano umiliato la Russia di Eltsin. Questa volta senza alcun rispetto per i diritti umani. Il mondo minacciò sanzioni per il massacro di Grozny, ma nulla si fece. Nel 2004 espropria il colosso petrolifero Yukos, imprigionando pretestuosamente il potente oligarca Kordhokovsky che aveva osato sfidarlo politicamente. Yukos era una società pubblica quotata a NY, ma questo non impedì a Putin di andare avanti per la sua strada. Politici e istituzioni finanziarie protestarono e minacciarono, ma poi volsero la testa dall’altra parte, reputando il business potenziale più interessante del ristabilire l’ordine di diritto e punire l’autocrate incurante di leggi e mercato. Ricordiamo bene quell’episodio che ci vide fare un piccolo investimento scommettendo su un occidente capace di ristabilire la forza del diritto. Alla fine, capimmo e rivendemmo Yukos in perdita. Putin aveva quindi ragione.

Secondo l’acclamato libro di Catherine Belton Putin’s people (Penguin, 2020), l’affare Kordhokovsky aprì a Putin e ai suoi KGB accoliti la possibilità di prendere il controllo dell’economia del Paese e del suo sistema giudiziario. Entro il 2012 il 50% del PIL russo era controllato da uomini di Putin.

Poi arrivò la Georgia. Poi le tensioni con Moldavia e le repubbliche baltiche. Quindi la Crimea. Ogni volta si è ricominciato a fare business con la Russia di Putin. Anzi, in Europa a investire e a intensificare legami e dipendenze. La logica economica era rappresentata dall’avidità di breve, verso cui, ahimè, sono concentrati i mercati finanziari. La logica politica e strategica, almeno non quella a sua volta condizionata dalle lobby economiche, era di mantenere il grande Paese vicino per evitare che una grande potenza nucleare si isolasse, un po’ come si fa spesso con i ragazzi difficili per non creare fratture profonde, irreparabili e pericolose. Legando economicamente a doppio filo il Paese lo si sarebbe accompagnato fino alla demise di Vladimir Putin. Logica a cui alcuni credevano sinceramente e altri strumentalizzarono pretestuosamente, sempre per le solite ragioni economiche di breve o, peggio, oggetto della eccezionale macchina di corruzione dell’amministrazione Putin, estremamente radicata nella politica occidentale. Il risultato è stato che il ragazzo è così cresciuto più prepotente e sicuro. E oggi ha oltrepassato la linea.

Questa volta l’Europa non volterà di nuovo la testa. Non è solo un auspicio, crediamo sia molto probabile avverrà e vediamo ora dopo ora che sta avvenendo.

Patrick Cockburn, un ex giornalista dell’FT grande esperto di Russia e Medio-Oriente che seguiamo e che ora che lavora per l’Independent, esce con un interessante articolo nel week end (Putin has gambled everything on Ukraine, and now his political survival in Russia is in doubt (inews.co.uk)) che cerca di capire perché’ Putin si è spinto a tanto. La spiegazione del giornalista si condensa in una bella parola inglese, “hubris”. La traduzione è “eccesso di arroganza”, malattia comune ai despoti al potere per molti anni, super sicuri di sé e circondati da yes men che non osano contrastare ogni sua idea. Non lontano da quello che sta succedendo al turco Tayyip Erdogan o che successe a Muammar Gaddafi o Saddam Hussein. La cosa positiva è che questo di solito porta ad un errore che segna anche la sua fine. Il giornalista riporta anche un aneddoto simpatico. All’inizio del 1900 in Russia vi era nervosismo tra le masse. Lo zar Nicola II decise che vi era bisogno “di una guerra breve e vittoriosa”. Si imbarco’ nel 1904 in una guerra col Giappone che fu sì breve, ma non vittoriosa, peggiorando la situazione. Il maggiore dissenso interno che ne seguì lo condusse a prendere parte alla Prima guerra mondiale che, a sua volta, inevitabilmente, portò alla rivoluzione russa del 1917. Con Putin crediamo ci vorrà molto molto meno.

Alexei Navalny

Guardando indietro, col senno di poi, capiamo ora l’accanimento in vendita su alcuni titoli russi, o sensibili alle vicende russe, nelle ultime settimane. È difficile, d’altronde, come i conoscitori dell’analisi tecnica sanno bene, capire se in questi casi c’è qualcuno più informato degli altri o se è solo panico. Putin e i suoi accoliti sapevano cosa sarebbe successo. Lo sapeva anche l’intelligence americana che lo ripeteva attraverso Biden e a cui pochi credevano. La negoziazione era finta, basata su richieste inaccettabili per qualsiasi stato indipendente o per qualsiasi alleanza che abbia un senso. L’obiettivo? Crediamo che sia unire Crimea con la nuova auto/proclamata repubblica del Donbass, dando a questa un accesso al mare e dando alla Crimea un accesso alla Russia. Praticamente Putin vorrebbe prendere il 30/40% del paese ed essere capace di influenzare il resto.  Finire quindi il lavoro iniziato nel 2014. Non distante da quanto fatto in Georgia o Moldavia. Questo risponde alle istanze nostalgiche/malate di un revisionismo storico comune in molti politici sovietici, ma soprattutto alla necessità di distrarre la popolazione russa in fermento per una graduale riduzione dei diritti civili nel Paese. Il 24/02 è stato, stranamente, anche il giorno dell’udienza di Navalny, il politico russo imprigionato ingiustamente da Putin.

Nel lungo siamo tutti morti, recita un vecchio adagio molto utilizzato sul mercato. Tuttavia, proviamo a capire cosa succederà nel lungo periodo, esercizio rilassante perché nessuno ti chiederà mai conto delle bischerate dette. Nel lungo finalmente l’outlook è rosa. Buffo come quando le cose appaiono drammatiche in realtà è proprio quando il meccanismo del cambiamento si mette in movimento. Di nuovo, andando a spulciare i libri di storia, vediamo che i dittatori cadono quando fanno stare male la loro gente. Come in Cina, le masse rinunciano sì alla propria libertà ma solo in cambio del benessere economico; e se oggi mantenere tale benessere rappresenta una significativa preoccupazione per Xi Jinping, rappresenta per Putin un’utopia. Quando il benessere viene a mancare, benessere definito come lo status a cui eri abituato, puoi mischiare le carte e allungare i tempi con una guerra, ma poi il tuo tempo finisce. Difficile dire quando questo avverrà, ma Putin ha, giovedì scorso, gettato le premesse per la sua demise e la demise del sistema autocratico del Paese. Crediamo non potrà tornare indietro.

La Russia ritornerà in un futuro non lontano ad essere investibile.

Più importante è cercare di analizzare cosa può succedere nel breve, e anche più difficile e pericoloso. Ma ci proviamo. Iniziamo a dire che le ripercussioni derivano dal fatto stesso che l’invasione abbia avuto luogo e che l’andamento del conflitto in sé, per quanto importante, non ha ormai effetto sulle sue ripercussioni geopolitiche, ma solo sulla volatilità dei mercati. Ogni minaccia o timore di un conflitto diretto con la Nato, ipotesi che rimane assai remota, non può che aumentare la volatilità di breve del mercato. Quindi aspettiamoci un mercato molto sensibile su questo fronte. Più duro il conflitto, più sarà dura per Putin da giustificare domesticamente e sarà inevitabile che le sanzioni occidentali diventino estreme, come possiamo già vedere in queste ore. Tuttavia, se Kiev dovesse cadere domani o non dovesse mai cadere la fisionomia del nuovo mondo non cambia.

Proprio di ieri sera l’annuncio che Putin, dopo aver definito un incontro con la leadership ucraina per avviare un cessate il fuoco, ha messo in allerta l’apparato nucleare russo. Questo indica uno stato di disperazione sostanziale. Se da una parte questa mossa crea ansia e deve essere trattata dall’Occidente con cautela, dall’altra inevitabilmente rende per Putin il futuro binario: o la rinuncia al potere o il ritorno del Paese alla dittatura sovietica di 40 anni. Dopo una ventennale fase di capitalismo saggiata dalla popolazione russa, riteniamo la seconda ipotesi estremamente difficile da gestire.

Il nuovo mondo

Il nuovo mondo vedrà due assi ben delineati. Russia/Cina (per noi i “cattivi”) e USA/Europa/Giappone/Corea (i “buoni”). I Paesi Emergenti rientreranno in una sfera o nell’altra a seconda dei casi e del supporto economico assicurato. Chiaramente meno hai e meno supporto puoi dare.

Ripercussioni geografiche

strong>Russia. La Russia vedrà il benessere della sua popolazione pesantemente ridimensionato. Questo dovrà essere quindi accompagnato da limitazioni crescenti alla libertà personale (movimento, informazione, libera espressione, democrazia) e quindi repressione. Questo aumenterà anche l’instabilità del Paese e la possibilità che il regime venga rovesciato. Parte dell’output e dell’input economico perso verso l’Europa verrà compensato dalla Cina che sarà felice di vendergli parte dei beni che prima venivano acquistati dagli Europei e comprare materie prime, gas e petrolio a sconto.

Cina. Guadagnerà un alleato fedele, che gli garantirà materie prime ed uno sbocco ai suoi beni e che compenserà in parte il processo di deglobalizzazione in atto verso di lei da parte di Europa e USA. Apparentemente apre la strada all’”integrazione” di Taiwan. In realtà, se le cose si mettono male per la Russia di Putin, come crediamo sia probabile, il risultato sarà opposto, ossia risulta un deterrente per la Cina. Motivo in più perché gli USA dimostrino risolutezza oggi. Il focus della Cina oggi è di elevare il benessere di 600 mln dei suoi cittadini che vivono con meno di 200 USD al mese. Non riuscirci vorrebbe dire mettere a repentaglio la legittimità del partito. Vista la sua delicata fase politico/economica la Cina crediamo eviterà di allinearsi troppo con la Russia per evitare sanzioni e cercherà di avere un atteggiamento opportunistico.

Europa. Perderà una parte non trascurabile dell’export russo che rappresenta oltre il 4% dell’export europeo, quindi un colpo significativo alla domanda aggregata. Inoltre, dovrà gradualmente ridefinire l’approvvigionamento di materie prime, petrolio e gas, reindirizzandosi su altri player, probabilmente a prezzi elevati per un certo periodo di tempo; quindi, un colpo al potere di acquisto dei consumatori. L’Europa ha inoltre Investimenti diretti in Russia per circa 400 bln USD ed una parte sarà persa.

Tuttavia,

  • parte dell’export russo perso sarà recuperato da migliori rapporti in termini di intercambio con gli USA

 

  • il prezzo dei carburanti fossili tenderà gradualmente a calare in quanto la produzione russa troverà altri mercati di sbocco, ribilanciando domanda/offerta globale

 

  • l’alto prezzo di carburanti fossili e materie prime rientrerà in parte in Europa attraverso maggiore domanda dai paesi produttori di questi (Sudamerica, Africa, Medio Oriente, sud-est asiatico)

 

  • in generale le società europee hanno una limitata esposizione specifica alla Russia, grazie a politiche di diversificazione del rischio messe in piedi dopo il 2014

 

  • l’evento accelera gli investimenti del continente per rendersi più indipendente (manifattura, semiconduttori, materie prime, rinnovabili, auto elettriche, etc) e questo dovrebbe aiutare la piena occupazione e la dinamica salariale che, come negli USA, si sta già muovendo al rialzo sull’onda delle manovre fiscali e del processo di deglobalizzazione

 

  • l’evento unisce l’Europa e dà stimolo per rafforzare l’UE dilaniata in questi anni da differenze politiche

 

  • l’evento rafforza l’impulso verso l’unione bancaria e fiscale nell’area

 

USA. Beneficerà di grandi investimenti per accelerare il processo di deglobalizzazione che questo evento ha reso più importante. Beneficerà anche dell’incremento sostanziale di investimenti per armamenti in tutto il nuovo mondo. Beneficerà della domanda europea per i suoi carburanti fossili. Beneficerà di nuovo supporto politico per investimenti legati alla transizione energetica.

Paesi Emergenti. 2 su 3 Paesi Emergenti sono dipendenti dal prezzo delle soft e hard commodity, ovvero le commodity rappresentano oltre il 60% del totale delle esportazioni. La crisi che viviamo manterrà per un certo periodo di tempo alto il prezzo delle commodity, mentre riduce il timore sui tassi a cui queste aree sono molto sensibili. L’alto prezzo delle commodity ha quindi un effetto positivo sull’economia di questi Paesi molti dei quali dopo un decennio di sottoperformance presentano mercati azionari con valutazioni modeste.

 

Ripercussioni settoriali

Perdenti.

  • Lusso (effetto ricchezza a seguito debolezza del mercato americano tech, tassi in fase di normalizzazione e perdita di parte della domanda russa)

 

li>Energetici (molti hanno investito enormemente in Russia e sebbene manifestino ottimi profitti ora questa fase apre la strada ad un’inversione definitiva del trend del petrolio e del gas nel giro di pochi anni/mesi e il mercato anticipa, in particolare dopo i recenti rialzi di questi titoli)

  • E chiaramente ogni società con forte esposizione delle vendite e soprattutto degli utili alla Russia (una minoranza tra i titoli europei)

 

Vincenti.

  • Rinnovabili e zero carbon (nucleare e tecnologie per filtrare CO2)
  • Armamenti
  • Infrastruttura energetica (rigassificatori, grid, pipelines)

 

  • Banche (Europa più unita rappresenta uno stimolo per M&A di un settore troppo frammentato)
  • Telefonici (Europa più unita è uno stimolo per M&A di un settore troppo frammentato)

 

  • Mobilità elettrica (sussidi saranno prolungati e sviluppo infrastruttura accelerato)

 

  • Minerari fuori dalla Russia (che sconteranno alto prezzo delle materie prime per un periodo più lungo)

 

Quanto sopra si aggiunge al trend della deglobalizzazione che spinge le società a riportare produzione in casa, aiutando a far crescere occupazione e salari e ridurre le grandi diseguaglianze sviluppate nel decennio.

Nel breve si balla e è difficile dire dove il mercato andrà perché è guidato dai flussi. Tuttavia, una volta che il mercato avrà, per ogni titolo, calcolato le perdite di profittabilità futura legate a un isolamento russo e avrà scartato l’ipotesi di un allargamento della guerra tornerà a concentrarsi sui fondamentali che rimangono buoni.

 Per concludere la tragedia che si sta consumando in questi giorni porta anche con sé cambiamenti positivi e opportunità umane, politiche e finanziarie. 

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