Ludopatia e investimenti
Tanto le autorità si sono prodigate negli anni per limitare il gioco d’azzardo e i danni che questo crea. Sebbene sia un’attività vecchia come il mondo e intrinseca nella biologia umana è indubbio che una corretta normativa può mantenere vivo il piacere del gioco come attività di svago, limitando i fenomeni estremi che possono avere ripercussioni nefaste per individui e famiglie. Come dicevano i latini, est modus in rebus. Tuttavia, non possiamo non notare come tali limitazioni non esistano o almeno non funzionino con la speculazione finanziaria. Un riconosciuto studio, The conceptual and and empirical relationship between gambling, investing, and speculation di Jennifer Arthur, Robert Williams e Paul Delfabro, ricercatori dell’Università di Adelaide, sottolinea come la speculazione finanziaria condivida con il gioco d’azzardo molti elementi: 1) nel gioco d’azzardo non si comprano attività, ma sono una opzione di guadagnare dei soldi. Nella speculazione alcune volte si acquisiscono attività altre volte no. Tuttavia, l’obiettivo non è l’acquisizione dell’attività stessa, che non si conosce realmente, ma il guadagnare soldi. 2) Nel gioco d’azzardo il corpo emette dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore che il cervello rilascia durante attività piacevoli, come il cibo, il sesso e l’assunzione di droghe ed è anche rilasciata in situazioni in cui il “premio” è incerto. E questo vale sia per il gioco d’azzardo che per la speculazione. Essere esposti a queste situazioni in modo metodico crea dipendenza. Il trader on-line, come lo scommettitore, è più attirato da un piccolo guadagno di breve piuttosto che da un grande guadagno di lungo perché permette un maggiore rilascio di dopamina. 3) Nel gioco d’azzardo vengono prodotti suoni e luci che tendono ad amplificare lo stato di euforia, coraggio ed ottimismo che la dopamina crea nel giocatore. Nel trading è anche peggio. Non solo luci e rumori, ma anche uno stimolo ad operare attraverso flussi di notizie e raccomandazioni di acquisto incessanti.
La speculazione finanziaria nel mondo retail deve essere regolamentata. Se è vero che viviamo in un mondo pieno di regolamentazioni, alcune volte eccessive, viviamo anche in un mondo pieno di eccessi non regolamentati. Apple vende hardware e pretende di obbligare l’uso della sua piattaforma Apple Store per lo scarico di programmi sul telefono, addebitando per questo ben il 30% dell’importo. Google controlla di fatto la ricerca on-line del pianeta. Amazon grazie alla sua posizione nel commercio online può decidere vita e morte di società. I cambiamenti tecnologici tendono a essere repentini. I regolatori sono lenti. Ma prima o poi, come morte e tasse, arrivano. E quando arrivano spesso esagerano (chiedere a banche e telefonici…).
Une histoire triste
La cinematografia illustre ha reso molte auto indimenticabili, inesorabilmente legate alle emozioni che alcuni film ci hanno suscitato. Come dimenticare la Mercedes Pagoda in American Gigolò del 1980. La Ford Thunderbird del glorioso Thelma & Luise (1991). Il Volkswagen Transporter del raffinato Little Miss Sunshine (2006). E ancora il Duetto dell’Alfa per l’iconico Il Graduato (1967). La Smart per il romantico Un’ottima annata di Ridley Scott (2006) o la spericolata Citroen 2V nel film di James Bond Solo per i tuoi occhi, con la bellissima Carole Bouquet (1981). Trovare un film che ha lasciato una traccia con una Renault non è semplice. Dopo un po’ di ricerca sono riuscito solo a trovare la Renault 5 nel film Dude, where’s my car? (titolo della versione italiana, Fatti, strafatti e strafighe…), un film demenziale uscito nel 2000 che ha lasciato una “traccia” che tuttavia non profuma né di gloria, né di gelsomino.
La storia di Renault è così triste da far venire gli occhi lucidi ad un allevatore di visoni. Roba vietata ai bimbi.
Fondata dal giovane Louis Renault nel 1898, con l’aiuto dei fratelli Marcel e Ferdinand, la società si impose subito per la sua rivoluzionaria trasmissione a presa diretta. L’egemonia nelle gare dell’epoca diede forza al marchio. Tuttavia, in una di quelle gare perse la vita il fratello di Louis, Marcel Renault. Il business tuttavia esplose e nel 1908 la società produceva oltre 4000 autovetture all’anno, tra cui diverse di segmento elevato. La società aveva registrato diversi brevetti, molti dei quali nei motori che ora produceva direttamente, e si era sviluppata verticalmente acquisendo acciaierie. Purtroppo, in quell’anno muore precocemente a causa di un tumore al fegato anche l’altro fratello, Ferdinand. La società diede un contributo al suo Paese durante la Prima guerra mondiale, ideando e realizzando il carro armato FT, agile e robusto. Il dopoguerra vide nascere il competitor Citroen che utilizzava la catena di montaggio introdotta da Ford alcuni anni prima e offriva quindi un prodotto molto attraente per la fascia medio bassa. Tuttavia, Renault rimaneva un brand di alto della gamma di notevole successo. Come sempre avviene, i brand non sopravvivono quando rimangono indietro tecnologicamente. Citroen inizio ad offrire auto più prestigiose a prezzi molto competitivi e Renault vide così nel 1921 dimezzare le sue vendite, a 5500 autovetture. Fu crisi. Nel 1922 le vendite crollarono di un ulteriore 70%, arrivando a 1700 veicoli. Citroen quell’anno produsse oltre 30mila vetture. Sarebbero divenute 100mila due anni dopo. Proprio quando sembravano non esserci più speranze per la povera Renault questa uscì col modello KJ, un modello piccolo, ma attraente che riuscì ad intercettare parte della domanda crescente. Nel 1923 le vendite di Renault decuplicarono a quasi 20mila veicoli. Le due società si sarebbero scornate fino all’arrivo della Seconda guerra mondiale, ma vale la pena di ricordare un episodio che ha sapore attuale. Nel 1931 entra nell’organico della Renault André Lefebvre, un manager formatosi alla Voisin, un produttore di aerei. Questo soggetto si rivelò estremamente capace, sebbene dopo qualche anno, quando vide che lo strapotere di Luis Renault non gli avrebbe dato spazio, andò alla Citroen dove creò (insieme a Flaminio Bertoni) auto come la DS (lo squalo) e la 2CV. Questo ricorda molto la storia di Carlo Tavares, AD di Citroen e precedentemente braccio destro di Carlos Ghosn in Renault. Qui capendo che non sarebbe mai andato oltre quel ruolo andò in Citroen, in pochi anni rivoluzionandola e rendendola una storia di successo.
Durante la Seconda guerra mondiale la Renault dovette lavorare per i tedeschi, cercando di proteggere le sue fabbriche e i suoi dipendenti. Tuttavia, Louis Renault e l’allora AD Francois Lehideux stavano già lavorando al dopo conflitto, sul progetto della 4CV che sarebbe stato poi un grande successo. Tristemente, quando la guerra terminò, Louis Renault, nell’anarchia dei primi giorni della liberazione, fu aggredito dalle guardie francesi che lo vedevano erroneamente come collaborazionista. Louis Renault morì così per le percosse dei suoi stessi connazionali dopo aver offerto al suo Paese una delle storie imprenditoriali più esaltanti e generose. Molto triste.
Oggi Renault è una società reduce da un grande scandalo societario che ha visto il suo AD Carlos Ghosn arrestato in Giappone (per poi scappare nascosto in una custodia per violoncello, roba da pantera rosa…). Insieme alla perdita del suo deus ex-macchina Renault ha visto la sua partnership con Nissan sciogliersi in una delle peggiori manifestazioni del protezionismo giapponese. La società non ha un bel marchio. Non ha delle macchine di cui parlare con gli amici a tavola ed ha tra gli azionisti il governo francese, negli ultimi anni un gradino sotto Cuba come capacità di interferenza nelle società a grande intensità di manodopera. L’anno prossimo, ricordiamolo, ci sono le presidenziali in Francia. Bene, sembra la situazione ideale per comprarsi qualche put, denaro facile. In particolare, dopo che il titolo è raddoppiato dai minimi del marzo 2020, seguendo istintivamente un settore in crescita.
Tuttavia, come avvenne nel 1921, proprio quando non c’è speranza ci si può aspettare più determinazione e pragmatismo da una società autolesionista che troppo a lungo è stata consumata da liti interne, ingerenza statale e management mitomane focalizzato sui volumi e non sui margini/brand.
Analizziamo qualche punto:
1) Il management. Luca De Meo è un buon manager. Magari non un genio alla Marchionne o alla Tavares ma sicuramente è il top quando si parla di marketing, l’uomo ideale a migliorare il percepito di un brand e Renault ne ha assolutamente bisogno. Come era Fiat quindici anni fa, il brand di Renault è sotto il tappetino e le sue auto brutte. Con la differenza che Renault fa macchine di buona qualità, mentre la qualità di Fiat allora era coerente col brand e con l’estetica. Oggi Renault è la macchina col dono di farti apparire più vecchio di dieci/quindici anni quando ti metti al volante. La macchina con cui mai e poi mai andare a prendere la ragazza dei sogni. Se con auto brutte e un brand così riescono a fare soldi ci si domanda cosa potrebbero fare con un brand anche solo neutrale …
2) Nissan. Il gruppo Renault-Nissan era uno dei più grandi produttori di veicoli al mondo, a ridosso di Toyota e Volkswagen. Ci si aspettava la fusione ed è successo il disastro. Ora ci si aspetta che il disastro (ovvero la separazione rigida tra le due società) continui. Quindi al massimo rimane tutto così.
3) I costi. Lo Stato non vuole licenziamenti domestici, ma non vuole neanche che un colosso come Renault vada in crisi. I costi verranno tagliati e lo Stato proteggerà i soggetti lasciati a casa.
4) L’elettrico. Renault-Nissan è uno dei pionieri dell’elettrico. Oggi hanno perso la leadership, ma crediamo che recupereranno presto. Come vediamo in Borsa oggi, l’elettrico è molto percezione e siamo certi che la percezione migliorerà velocemente. Un piccolo appunto a De Meo che sulla recente presentazione sull’elettrico a nostro avviso ha un po’ esagerato, alla Cetto la Qualunque. Tuttavia, denota entusiasmo.
5) Valutazioni. La società Renault oggi vale praticamente la sua partecipazione in Nissan e il net cash in pancia. La società produce utili. Valutando 0,1x le vendite di Renault e la sua banca al patrimonio netto tangibile, multipli ancora modesti, il titolo potrebbe quasi raddoppiare.
Per concludere, una società triste, con un passato triste, con un brand triste e con aspettative tristi. Deludere da qui non sarà facile neppure per Renault. Vediamo.
Renault è detenuta nel fondo Pharus Electric Mobility Niches (3%), nella Nicchia Aree Satelliti.
Value Investing
Con value investing si indica un approccio assolutamente variegato. Alla base vi è tuttavia un comune denominatore che consiste nel cercare di beneficiare del modo in cui la testa dell’investitore funziona. L’investitore è attratto da ciò che sale e che produce un buon newsflow. Questo crea un collo di bottiglia su alcuni temi. Ossia più compratori che venditori. Allo stesso modo ciò che non sale o non ha un buon newsflow verrà venduto, e anche qui si crea un collo di bottiglia, con più venditori che compratori, che spingono oltremodo il titolo in basso. Un investitore growth/momentum dovrà sempre cercare temi positivi. Un investitore value, invece, avrà il lusso di analizzare cosa è stato buttato via per, gradualmente, accumulare le società e i temi dove si vede crescita un po’ più avanti nel tempo, oppure valori patrimoniali fortemente sottovalutati. O entrambi. Il value investor compra con un grosso margine di sicurezza valutativa. Il growth/momentum investor non si interessa tanto alle valutazioni quanto al momentum, sia questo del grafico o degli utili. È facile capire che operare in aree con poca concorrenza è più facile che operare in aree super concorrenziali. Sir John Templeton affermava che è impossibile performare bene nel lungo periodo a meno che l’investitore non si distacchi dalla maggioranza. E John Maynard Keynes affermava che se la maggioranza è d’accordo su qualcosa questo è già nei prezzi. Certo essere value richiede avere pazienza, e avere clienti con questa dote. A fronte di questo la possibilità di perdere capitale nel lungo periodo con un portafoglio value diversificato è molto bassa.
Come dicevamo, molti sono i value investor e tutti hanno le loro caratteristiche, più o meno distinguibili. Volendo creare un range, con da una parte il value investor più soft, che individua nell’ambito di un indice di riferimento le società con caratteristiche più value, nel rispetto della diversificazione per area geografica e settore, e dall’altra il value investor che non guarda diversificazione geografica, né settoriale, né la concentrazione dei titoli, sicuramente Peter Cundill si posizione alla fine di quest’ultima categoria. Armato solo di penna e bilanci Cundill cercava società dimenticate che valutava secondo la strategia del NET NET STOCKS, teorizzata da Ben Graham, ovvero società che trattavano sotto il valore dei suoi asset correnti al netto delle sue passività correnti e del suo debito finanziario. A questo Cundill univa altre caratteristiche come: 1) dovevano trattare sotto il patrimonio netto tangibile; 2) Il titolo doveva essere almeno la metà del precedente massimo; 3) Il rapporto prezzo utile doveva essere il più basso tra 10 e l’inverso del tasso IC a lungo; 4) La società doveva pagare un dividendo; 5) Il debito doveva essere sostenibile con il cash generato e doveva esserci spazio per aumentarlo. Bisogna dire che solo negli anni ’70 si trovavano società simili negli Stati Uniti. Oggi società così esistono solo in Giappone. Bisogna dire che Cundill, tuttavia, investiva anche molto all’estero.
Peter Cundill dal 75 all’85 generò un ritorno annuo del 26% verso un indice americano negativo in quel periodo. Scrisse un libro “There’s Always Something to Do” che risulta piacevole anche per il lettore non specializzato.
Viviamo in un mondo che da ormai 15 anni privilegia il growth ma crediamo si possa aprire davanti a noi una fase prolungata di riscoperta del value. Abbiamo pensato che può essere interessante ogni tanto andare a proporre qualche grande investitore passato che appartiene a questa categoria, mentre aspettiamo che questo approccio riparta. Parafrasando il mantra di Peter Cundill, “… negli investimenti ci vuole pazienza, pazienza e ancora pazienza”.
Logbook
In settimana ha riportato XL Axiata, terzo operatore mobile indonesiano. La società ha riportato dati solidi e il titolo è ben rimbalzato, Deteniamo la società nel fondo NEF SDG, nel trendSDG 5G (0,6%) e nel fondo Pharus Asian Niches, nella Nicchia Small Caos Indonesia (1%). Inoltre, ha riportato anche buoni dati l’IT integrator DXC, detenuta dal fondo NEF SDG, nel trendSDG 5G (1,2%) e nel fondo Asian Niches nella Nicchia 5G, sotto-Nicchia Apps (0,5%). La società, pur essendo raddoppiata dai minimi, tratta a 10x gli utili e poco sopra i 4x l’EV/EBITDA.
Questa settimana tra i titoli che abbiamo in portafoglio riporta solo Hewlett Packard Enterprise, detenuta dal fondo NEF SDG, nel trendSDG 5G (1%) e nel fondo Asian Niches nella Nicchia 5G, sotto-Nicchia Apps (0,4%).
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