Il curioso caso dei conglomerati giapponesi
Il curioso caso dei conglomerati giapponesi (1)
Katakura Industries è una buffa small cap. La sua nascita risale al 1873 ed è basata nel quartiere speciale di Chuo, all’interno dell’area metropolitana di Tokyo. La società è indubbiamente diversificata. È uno dei leader nel mercato delle vitamine in Giappone ed è anche attiva nel settore cardiovascolare con tre farmaci da lei sviluppati (Frandol, Frandol tape e Bisono). La società opera nel settore tessile, dove produce biancheria, in particolare in seta, il cui brand è popolare in Giappone. È poi attiva nella produzione e vendita della fibra idrosolubile Solvon e della fibra termoresistente a base di allumina NITIVY. La società produce macchinari industriali per la depurazione dei liquidi e camion per i pompieri. Alleva e vende api e produce miele che distribuisce. Gestisce una catena di vivai. Offre pulizia e manutenzione per condomini e aree industriali. Possiede alcuni grossi centri commerciali ed è attiva nella compra-vendita di immobili di ogni tipo. Sembra una pazzia? Bene questo in Giappone è la normalità! Piccole o grosse che siano, le società quotate sono quasi tutte conglomerate che operano nei campi più disparati. Questo chiaramente rende difficile l’analisi della società attraverso le metodologie quant che il mercato usa abitualmente. Anche chi guarda i fondamentali è spesso in difficoltà perché l’80% delle società quotate in Giappone non è coperta da analisti ed un altro 8% è sottocoperta. Si capisce così perché in Giappone quasi la metà delle società tratta sotto il patrimonio netto tangibile. E si capisce qualcosa in più della logica sottostante la nostra Nicchia Orphan Companies (orfane perché mancanti di copertura), che cerca di individuare le società più promettenti e sottovalutate in questo ampio e bellissimo universo. Come Benjamin Button fu abbandonato dalla madre, le società giapponesi sono abbandonate dagli investitori. L’apparenza conta. Le Orphan Companies rappresentano le casistiche dove la sottovalutazione delle società giapponesi raggiunge il suo apice.
Katakura Industries è una delle circa 100 società che deteniamo nella Nicchia Orphan Companies (Nicchia che occupa il 10% del fondo Asian Niches), gruppo di società con cui metodicamente parliamo e facciamo engagement. Katakura Industries è stata oggetto di offerta di acquisto negli scorsi giorni. Il premio è quasi del 70% rispetto al prezzo a cui la società trattava prima che iniziassero a trapelare i rumori. Al prezzo offerto la società vale 12x gli utili, 1,1x il patrimonio netto tangibile e possiede net cash per circa il 50% della capitalizzazione. Lasciamo al lettore fare i calcoli su quanto valesse prima dell’offerta…
Il curioso caso dei conglomerati giapponesi (2)
Nel 2017/18 in Giappone il METI (Minister of Economy, Trade and Industry) introdusse una riforma fiscale volta a proteggere gli azionisti delle società conglomerate da carichi fiscali in caso di scissioni societarie. L’obiettivo era quello di stimolare la semplificazione societaria. Come nella meiosi, processo che divide le cellule creandone altre con un patrimonio genetico più semplice, quindi biologicamente adatte per una riproduzione efficiente, il processo di scissione societaria comporta la creazione di realtà aziendali più semplici, adatte per intraprendere operazioni di aggregazione, con l’obiettivo di migliorare la probabilità che la società sopravviva e si sviluppi.
La trasformazione dei conglomerati in società pure avrebbe dovuto portare ad un rerating del mercato e ad un’ondata di operazioni di M&A. In realtà, finora questo processo di trasformazione non sembra veramente iniziato. Tuttavia insieme alla riforma fiscale vi sono una serie di altri fattori che stanno spingendo in questa direzione : 1) il nuovo codice di condotta societario (che punta su consiglieri di amministrazione indipendenti); 2) la moral suasion del governo e della BOJ per ridurre il cross-shareholding tra società (ancora oggi circa 1/3 delle azioni delle società quotate giapponesi è detenuto da cross-shareholder che tendono a mantenere lo status quo); 3) l’aumento degli azionisti occidentali attivisti; 4) la minore intromissione del governo e dei tribunali nelle vicende di corporate action.
Toshiba pochi giorni fa ha comunicato che è pronta a scindersi in tre parti: 1) una divisione con le macchine per l’ufficio e con l’obiettivo di quotare Kioxia, la partecipata attiva nelle memorie che dovrebbe valere metà della attuale capitalizzazione di Toshiba; 2) la divisione Device (che conterrà per lo più gli hard disk e semiconduttori); e 3) la divisione Infrastrutture, attiva in moltissimi settori che presentano oggi grandi prospettive di crescita (compreso il nucleare, che la rende strategicamente importante per il Paese e non acquisibile da soggetti stranieri).
Dalle pagine dell’FT Leo Lewis, un giornalista esperto di Giappone, esprime le sue titubanze che lo split di Toshiba possa rappresentare l’inizio di un nuovo ciclo (clicca qui per visualizzarlo). Cita anche Panasonic e Mitsubishi Heavy Industries, chiari candidati per una scissione. Non possiamo non capire la frustrazione e lo scetticismo del giornalista dopo anni di attesa che qualcosa cambi in Giappone. Tuttavia, noi siamo più positivi.
Questi cambiamenti sono lunghi e sembrano non arrivare mai, ma quando arrivano sono potenti. Oltre a Toshiba, leggiamo altri segnali. Panasonic, citata sull’FT, ha riorganizzato la società in nuove divisioni che saranno realmente separate. Quindi i profitti di una non serviranno più a ripianare le perdite di un’altra. La società ha fatto capire che la divisione batterie potrebbe essere quotata. Shinsei Bank, una importante banca giapponese, ha subito un take-over ostile da parte di un’altra istituzione giapponese, cosa impensabile fino a ieri. Inoltre, questo sarà l’anno in cui in Giappone verrà effettuato il maggior numero di operazioni di M&A da sempre. In tutto il mondo vediamo la tendenza a semplificare le strutture societarie. I colossi GE e J&J hanno annunciato in settimana la scissione rispettivamente in 3 e 2 nuove società quotate. In Giappone, la terra dei conglomerati, questo tipo di trend può creare un movimento tellurico, con grandi vantaggi per gli azionisti.
Cibo e robotica
L’evoluzione dei supermarket è partita da lontano. Una volta si entrava dal droghiere, si facevano due parole e si chiedeva all’addetto ciò di cui avevamo bisogno. Oggi solo più in alcuni borghi si fa così. C’era un contatto umano che ora non c’è più.
Il cambiamento ha tuttavia origini molto lontane.
Nel 1917 a Memphis, Tennessee, venne introdotto un nuovo format per i supermercati. I clienti erano finalmente liberi di prendere quello che volevano dagli scaffali e portare il tutto al cassiere che metteva nelle buste, faceva il conto e dava il resto. Fu una rivoluzione. La produttività esplose, così come la soddisfazione di una buona parte dei clienti. Molti furono tuttavia coloro che, come sempre capita, trovarono la situazione troppo impersonale o scomoda. Come sempre c’è chi ci mette di più a adattarsi.
Nel 1967 le code si fanno più corte. Infatti, Kruger sviluppa il primo scanner e inizia a mettere su ogni prodotto una targhetta da questo leggibile. Pochi anni dopo viene sviluppato da IBM il primo UPC (Uniform Product Code) e adottato gradualmente da tutto il settore del food retail, negli USA come all’estero. Questo, oltre a ridurre le code, migliorò enormemente l’efficienza della logistica.
Qualche anno dopo, nel 1984, David R Humble inventò la prima cassa automatica. Iniziarono ad essere utilizzate negli anni ‘90 e negli ultimi quindici anni sono esplose. Difficile non vederne un po’ in tutti i supermarket. La loro diffusione deriva dalla necessità dei supermercati di essere più competitivi e redditizi. Secondo un recentissimo studio dell’OCSE (clicca qui per visualizzarlo) nei prossimi anni, in questo settore, sparirà 1/3 degli addetti a causa dell’automazione.
Sulle casse automatiche il feedback dei consumatori è misto. Infatti, se hai una bottiglia di vino devi cercare l’addetto per mostrare il tuo ID. Alcuni codici non passano subito e il processo si blocca. Altre volte si ha difficoltà a portare davanti allo scanner il prodotto (cassa d’acqua). Infine, in altre circostanze, il blocco deriva da fattori non comprensibili per il frustrato compratore che rimane bloccato per diversi minuti prima di essere rimesso in libertà insieme al suo litro di latte (l’attesa in fila davanti al cassiere è meno frustrante poiché il processo almeno ci è chiaro).
Le prime macchine non avevano voce. Poi arrivarono quelle con voce elettronica e modi scortesi. Ora la voce è umana e i modi cortesi. Spesso molto più cortesi di quelli del cassiere che a malapena ti saluta e non ti mette più la spesa nelle buste. Non si capisce se questo sia voluto, ma sicuramente agisce come stimolo ad usare le casse automatiche…
Oggi oltre a concentrarsi per migliorare la cassa automatica si va verso nuove frontiere che inevitabilmente incontreranno altri problemi che, col tempo, verranno, di nuovo, risolti. Nel 2016, con grande clamore, Amazon lancia il format Amazon GO (qui un video di presentazione ). In questi negozi ci si registra una volta e poi si entra, si prende cosa serve e si esce. La ricevuta arriva direttamente sul telefono e il conto addebitato sulla carta. Una serie di sensori individua cosa il cliente ha preso senza bisogno di fastidiose code. Quest’anno il format è stato chiuso. Come mai? Se sulla carta sembrava tutto facile, proprio come per le casse automatiche, vi sono una serie di complicazioni che rischiano di rovinare l’esperienza. E poi ci vuole tempo. La tecnologia e la connessione devono migliorare. Per il cliente deve essere veramente comodo e, soprattutto, deve abituarsi. Mentre Amazon Go chiudeva Tesco lanciava lo stesso format a Londra e sembra funzionare. Dall’altra parte del mondo, in Corea, a settembre, E-Mart, la più grande catena del paese avvia il primo negozio “unmanned” (ovvero senza personale). In Corea il 5G è già funzionante (sebbene lontano dall’essere ciò che sarà nei prossimi anni in termini di velocità e latenza) e la propensione alla tecnologia è alta. I negozi vengono strutturati con la tecnologia di una società del gruppo, Shinsegae Information&Comunication, detenuta al 35% da E-Mart. Qui un video sulla tecnologia della società che ricorda, in modo algidamente più coreano, quello di Amazon. Per chi pensa come noi che questo, volente o nolente, è il futuro, allora ha senso dare un occhio a questa società che oltre a essere un importante player nel settore, può vantare di avere alle spalle un azionista/cliente colosso che può dargli una certa visibilità sulle commesse. La società, dai minimi COVID registrati nel 2020, è salita del 150%, ma rimane a 8,5x gli utili, 1,4x il patrimonio netto tangibile e con 1/3 della capitalizzazione in net cash. Magia del mercato coreano…
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