Chewing GAM
Un tempo chiamato chicles, come l’albero da cui si estraeva questa sostanza gommosa già masticata dagli aztechi, il chewing gum viene prodotto dagli anni ’60 con una sostanza sintetica a base di butadiene, molto più facile da ottenere. Usato inizialmente per limitare la fame, è divenuto un sostitutivo delle caramelle e utilizzato per migliorare l’alito o pulire i denti.
Negli ultimi due mesi il mercato si è messo letteralmente a masticare l’asset manager GAM, facendole perdere il 50%. Le ragioni non sono facilmente comprensibili. Come abbiamo già avuto modo di descrivere (commento dello scorso luglio) GAM è una società di asset management in ristrutturazione. Il management è di qualità e le politiche ora perseguite sembrano corrette. Purtroppo, non basta. L’aura negativa accompagna l’asset manager per molto tempo dopo uno scandalo, per quanto in questo caso lo scandalo non derivi da comportamenti scorretti e non abbia generato perdite per i clienti. La società, però, sembra prossima ad aver girato l’angolo e la valutazione è estremamente attraente, con gli AUM valutati a meno dello 0,2%.
A seguito dello scandalo di cui sopra, ossia le problematiche legate agli illiquidi detenuti nel loro flagship fund e dopo essere incappati con un fondo nel trappolone Greensill, è normale che il pensiero vada al rischio litigation. Ed è per questo che abbiamo riparlato con la società per sondare se vi sono tali rischi. Cosa è emerso?
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La società ha assolutamente escluso rischi litigation, con il fondo Greensill completamente rimborsabile a scadenza, così come è stato completamente rimborsato il fondo origine dei problemi della società.
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Alla fine dello scorso anno la società sembrava aver girato l’angolo in termini di AUM, ma così non è. Nonostante un buon inflow sui fondi equity, che mostrano buone performance assolute e relative, i fondi bond continuano a vedere uscite, sia per un fenomeno di mercato sia per una disaffezione da parte dei fondi pensione sul brand.
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La società sta terminando la ristrutturazione dei prodotti e da qui a poco lancerà nuovi fondi.
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Il target di 100 mln CHF di pre-tax al 2022, sebbene spostato al 2024 dopo il covid, non è comunque credibile. Questo richiederebbe oltre 20 bln CHF di nuova raccolta, oltre il 50% degli attuali AUM, da parte di una società che per ora non vede crescita.
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Ci aspettiamo che, in considerazione delle ultime dinamiche dei fondi pensione, gli AUM saranno diminuiti al 30 settembre.
Con nessuno spunto di ripresa all’orizzonte, è possibile che qualcuno abbia liquidato la posizione. I volumi scarsi hanno reso la discesa capitolare. Tuttavia, riteniamo la società abbia dei bei prodotti, una buona organizzazione e un team di gestione valido. Con una valutazione sotto i 250 mln di CHF e net cash per quasi 200 mln CHF, riteniamo che il profilo rischio/rendimento sia estremamente attraente. La società ha 37 bln CHF di AUM attivi e oltre 80 bln CHF di AUM private label e sembra rappresentare un ghiotto take over target. È d’altronde naturale che, dopo qualche masticata decisa, il chicles diventi più saporito …
Commentando un commentatore
Robert Armstrong (RA) è un commentatore del FT. Ha gestito per anni la LEX per poi passare a firmare una sua lettera. Una breve parentesi come gestore della pagina di moda maschile sempre per l’FT rende la sua personalità ancora più interessante. RA è preparato e originale. Pronto a riconoscere i suoi errori e a presentare tutte le sue incertezze, ma lungi dal ricordare al pubblico le volte in cui gli eventi gli hanno dato invece ragione. Una persona umile in un mondo, quello della finanza e del giornalismo, dove presunzione e superficialità non sono poi così rari. Sebbene ciò che scrive sia sempre interessante, spesso non ci trova d’accordo.
Qui di seguito riferimenti e commenti ad alcune sue recenti lettere.
I nuovi Keiretsu
RA esce 2 settimane fa con 3 lettere sul private equity ( Private equity’s meh decade | Financial Times (ft.com) – Private equity is leveraged equity | Financial Times (ft.com) – Hot retail summer | Financial Times (ft.com) In breve quello che ne esce è che: 1) In generale, negli ultimi 10 anni investire nel private equity o comprarsi un ETF sullo S&P500 avrebbe comportato risultati simili, forse leggermente meglio per l’ETF; 2) Alcuni fondi hanno fatto molto meglio degli altri, ma non vi era modo di prevedere tale sovraperformance all’inizio del decennio in quanto i risultati precedenti non c’erano (alcuni di questi fondi outperformer erano appena nati) o non indicavano una particolare capacità di generare alpha; 3) Considerando il forte indebitamento delle società gestite dal PE, indebitamento impossibile da sostenere per una società quotata, ne deduce che la performance ottenuta, pressoché uguale a quella del mercato, è stata raggiunta con un livello di rischio nettamente maggiore; 4) Conclude quindi che maggiore rischio e minore liquidabilità non sono remunerate adeguatamente da questi strumenti che invece remunerano molto bene, e immeritatamente, i gestori.
Quanto precede ha indubbiamente senso. Ma alcune precisazioni sono d’obbligo: 1) Se è vero che negli ultimi 10 anni non vi è stato in media alpha nel PE, è anche vero che nei precedenti 10 ve n’è stato. Il mercato azionario nei precedenti 10 anni è stato contraddistinto da volatilità maggiore rispetto agli ultimi 10 e da rendimenti minori. In questo ambito i prodotti di PE hanno brillato sia per rendimento che per volatilità, evitando così che gli investitori qui investiti prendessero scelte sbagliate nei momenti difficili, oltre che proteggendo le loro coronarie nelle fasi di estremo stress. 2) Quanto deriva dal punto 1 ha creato grande domanda per questa asset class che ha generato molta più offerta che, a sua volta, ha ridotto i rendimenti a causa di una riduzione di opportunità e un maggior numero di operatori diciamo meno preparati e/o talentuosi.
Poi c’è un’altra considerazione che ci sembra importante. Immaginate un’enorme società di PE, che controlla migliaia di società. Questa è abituata a lavorare in pool con altre grandi società di PE, che a loro volta controllano migliaia di società. Non viene il dubbio che se a una di queste società serva, diciamo per esempio, la carta igienica questa possa più facilmente essere acquistata da una delle società “affiliate”, ricreando una versione occidentale dei tanto infamati Keiretsu giapponesi o Chaebol coreani? Questo, se unito a enormi possibilità di finanziamento, non può non generare un significativo vantaggio (più o meno lecito)? Noi crediamo di sì. Prima o poi salterà fuori, ma visti i tempi dei regolatori non è cosa di cui dobbiamo probabilmente preoccuparci.
Possiamo concludere che il PE è asset class sicuramente interessante e, come tutte le asset class, ha i suoi pregi e difetti. Ha i suoi alti e bassi. Ha i suoi rischi e le sue opportunità. La sua illiquidità, poca trasparenza, limitata diversificazione ed assenza di volatilità la rendono adatta ad investitori qualificati che maggiormente possono comprenderne i rischi. Il nostro consiglio è che se non si è sicuri di trovare i PE più talentuosi meglio stare con i più grossi che “fanno” il mercato oppure con i più piccoli che trattano nicchie societarie che ai grandi non interessano. In ogni caso diversificare. Sempre.
ESG, un pericolo per il pianeta???
RA più volte ha espresso dubbi sugli ESG The ESG investing industry is dangerous | Financial Times (ft.com) Team ESG fights back | Financial Times (ft.com) . In una recente lettera dà supporto e dignità alla sua opinione attraverso un paio di personaggi Why we get inflation wrong | Financial Times (ft.com). Il primo, Aswath Damodaran, professore alla Stern University di NY, per molti incarna le moderne teorie di valutazione aziendale Musings on Markets: Sounding good or Doing good? A Skeptical Look at ESG (aswathdamodaran.blogspot.com). Il secondo, Tariq Fancy, ha rivestito per un breve periodo il ruolo di CIO per il Sustainable Investing presso il più grande asset manager del mondo, Blackrock The Secret Diary of a ‘Sustainable Investor’ — Part 1 | by Tariq Fancy | Aug, 2021 | Medium
I punti sollevati sono tre:
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Non si può pensare di mettere dei limiti agli investimenti e guadgnare altrettanto o di più rispetto a coloro che limiti non hanno;
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L’ESG crea più danni che benefici, portando vantaggi limitati e scoraggiando il cambiamento delle regole da parte del legislatore, unico modo in cui si può veramente svoltare pagina;
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L’ESG fa ricchi i consulenti.
Come detto apprezzo RA. Seguo e leggo da molti anni il quotatissimo Aswath Damodaran. E mi sono letto il lungo e abbastanza noioso scritto di Fancy (e ho fatto anche una giratina sul sito della sua iniziativa imprenditoriale no-profit a cui ora si dedica che, casualmente, si trova su tale documento).
Qui di seguito le conclusioni dei tre soggetti e le nostre considerazioni:
Non si può pensare di mettere dei limiti agli investimenti e guadagnare altrettanto o di più rispetto a coloro che limiti non hanno
. È come dire che un hedge fund farà molti più soldi di uno UCITS perché quest’ultimo ha delle regole e dei limiti. L’hedge fund può tranquillamente distruggere i risparmi degli investitori mentre difficilmente, grazie alle regole, lo UCITS può farlo. Damodaran nel suo pezzo in parte lo riconosce. La performance, lo sappiamo, è solo una parte dell’algoritmo per saper valutare un investimento. L’altra parte è data dal rischio. Nella disciplina classica si prende come proxy del rischio assunto la volatilità del portafoglio. È chiaramente un’approssimazione grezza, ma l’unica ragionevole. Infatti, un titolo può essere poco volatile e pericoloso e un altro molto volatile e molto meno pericoloso. Ma abbiamo bisogno di una misura del rischio. L’analisi di sostenibilità non fa altro che scartare dal portafoglio le società che non adottano pratiche ritenute sane in ambito di governance, ambiente e sociale. Questo inevitabilmente riduce il rischio di portafoglio. Quindi un portafoglio sostenibile è per forza meno rischioso nel lungo periodo. E quindi più adatto al risparmiatore retail che, direttamente o tramite fondi pensione, non specula ma investe per il lungo periodo.
L’ESG crea più danni che benefici, portando vantaggi limitati e scoraggiando il cambiamento delle regole da parte del legislatore, unico modo in cui si può veramente svoltare pagina.
Riteniamo anche questo punto profondamente sbagliato. La politica segue l’opinione pubblica. Se la sostenibilità entra sotto le unghie dell’opinione pubblica i politici seguiranno, facendosi paladini di questo trend. È quello che vediamo in tutto il mondo. Inoltre, la sostenibilità aziendale è un fenomeno planetario e anticipa le dinamiche politiche locali.
L’ESG fa ricchi i consulenti
. Questo è l’unico punto in cui ci trovano parzialmente d’accordo. Leggevamo proprio recentemente il documento (clicca qui per visualizzarlo) di Vanguard. Un documento ricco di termini vuoti e pomposi, costruito da consulenti. Vanguard gestisce ETF, come può decidere cosa votare alle assemblee? Cosa fa? Paga delle società che votano per suo conto in base a guidelines predefinite. Quindi queste prendono deleghe e preparano i documenti. Vanguard paga e li pubblica. Questa sarebbe l’analisi integrata di cui parla il PRI? Per gli investimenti quantitativi è la stessa cosa. Ci si affida a costosi provider che ti riducono l’universo in base a metodologie soggettive e non sempre chiare. Attenzione, queste pratiche per quanto meccaniche e ricche per i consulenti, sono comunque positive e mettono pressione alle società su temi importanti. Tuttavia, esiste anche l’analisi integrata e qui la sostenibilità può veramente essere approfondita dal gestore ed assumere un carattere meno meccanicistico e burocratico.
Credo che ci si debba sporcarsi le mani e vivere giorno per giorno l’analisi di sostenibilità con le aziende, invece che parlare di cose che si conoscono poco in modo troppo “alto” e distaccato. Non credo che nessuno di questi signori, per quanto illustri, lo abbia mai fatto veramente.
Equity, still yummy?
RA è scettico sull’equity. In una lettera presenta un bear case per poi, pochi giorni dopo, per cercare di accontentare tutti, fa una lettera sul bull case.
Bull case (The bull case on stocks | Financial Times (ft.com))
Che al bull case non ci crede troppo lo si capisce dalla pochezza delle argomentazioni. Due esattamente quelle che usa: 1) se vendi è difficile poi rientrare. Visto che il mercato va nel lungo periodo su, meglio non vendere. Fa poi l’esempio di quando vendette bene nel 2008, per poi ricomprare tuttavia molto più in alto diversi anni dopo; 2) menziona l’ormai famoso acronimo TINA, There Is No Alternative (non c’è alternativa alle azioni).
Bear case (The bear case on stocks | Financial Times (ft.com))
Il bear case è più articolato e si basa su diversi punti:
- Il mercato equity americano è sopravvalutato sotto ogni metrica a parte il risk premium (earning yield meno rendimento reale del decennale) su cui risulterebbe adeguatamente valutato;
- gli investitori retail hanno investito molto nelle azioni e nei fondi azionari, ma questo flusso non può continuare indefinitamente;
- l’appetito per il rischio sta declinando, giudicando quanti titoli sono lontani dai massimi, anche se dall’andamento dell’indice questo non si vede;
- vi è molta leva nel sistema che può portare a reazioni molto violente quando il momentum cambia di direzione;
- la crescita degli utili sta perdendo forza.
Qui di seguito le nostre considerazioni, punto per punto:
- Come più volte detto, il mercato americano non è proprio quello che un investitore value sogna la notte, essendo uno dei mercati più growth del pianeta dove non è facile trovare titoli value. Detto questo, anche qui abbiamo una dicotomia tra titoli molto cari (per una ragione che si chiama crescita, margini, posizionamento, scarsità, etc) su cui noi non investiamo, ma per cui il mercato va matto, e titoli che cari non sono, anche qui per una o più ragioni, che tuttavia in molti casi non sono condivisibili, su cui investiamo. Oggi la dicotomia è talmente forte che il medione ha la stessa valenza del polletto di Trilussa.
- Vero è che gli investitori retail sono molto attivi. Tuttavia, prima di pensare ai fondi che comprano, penserei alle criptovalute o ai meme stock che divorano. Questo è un fenomeno molto legato alle piattaforme on-line, ai risparmi accumulati e, soprattutto, alla mancanza di alternative. Mancanza di alternative che hanno comunque anche tutti gli operatori istituzionali. E non c’è stato ancora il fuggi fuggi dai bond che inevitabilmente, dopo un primo momento di panico, portera’ altri denari sull’equity.
- Quasi l’80% dei titoli è sopra la media a 200. Se è vero che eravamo a gennaio al 95% è anche vero che siamo ancora nella parte alta degli ultimi 5 anni, un posizionamento confortevole.
- Il debito a margine riportato dal grafico nell’articolo è lordo (900 bln usd) ed è in effetti aumentato molto negli ultimi mesi, riflesso di un’attività speculativa che anche noi spesso riscontriamo. Il livello netto (al netto del cash degli stessi conti) è circa la metà, due giorni circa di valore scambiato sul mercato, non particolarmente preoccupante. Questo fattore può potenzialmente aumentare la volatilità del mercato in discesa ma non certo, da solo, creare un bear market.
- La crescita degli utili prosegue ed è sana. Tuttavia, la derivata seconda, ossia la velocità di tale crescita è in rallentamento da livelli comunque non sostenibili. Non certo un indicatore che ci lascia terrorizzati
Ribadiamo che raramente abbiamo visto così tante opportunità sulla parte value del mercato, parte completamente dimenticata. E questo avviene in una fase di cambiamenti radicali, che dovrebbero rimescolare le carte della redditività tra i settori. Resta comunque vero che per trovarne in abbondanza, bisogna essere un po’ curiosi e guardare fuori dal mercato USA…
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