Yayoi Kusama
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Lo scoppio di una bolla è evento drammatico e affascinante. Con ripercussioni profonde. Non è una novità. Tuttavia, la tendenza a scordarselo o, per i più giovani, non analizzare cosa successe in passato, è forte.
1) La prima conseguenza dello scoppio di una bolla azionaria è la drastica riduzione della propensione al rischio da parte dell’investitore. Questo vale indistintamente per tutte le asset class, anche quelle non affette dalla bolla e, nella parte iniziale, anche nei confronti di quelle che dallo scoppio ci guadagneranno. È quindi importante essere freddi e calmi, cercando di anticipare il ritorno alla normalità, acquistando titoli ingiustamente penalizzati.
2) La seconda conseguenza dello scoppio della bolla è rappresentata dall’enorme perdita di ricchezza che questa provoca. Cui evidentemente segue una marcata riduzione della propensione al consumo e all’investimento. Agisce quindi come una severa manovra restrittiva. Lo scoppio della bolla a cui stiamo assistendo metterà un bel cap ai tassi di mercato (e alla forza del dollaro), elemento questo estremamente positivo in un contesto di isteria inflattiva. Potrebbe portare gli USA anche a una recessione tecnica, o ad avvicinarvisi molto. Tuttavia, un sistema finanziario solido e l’elevato livello dei risparmi delle famiglie eviteranno reazioni a catena e la ripresa economica sarà poi relativamente veloce.
Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – The Souls of Millions of Light Years Away, 2013. Wood, metal, glass mirrors, plastic, acrylic panel, rubber, LED lighting system, acrylic balls, and water, 287.7 × 415.3 × 415.3 cm. Courtesy of David Zwirner
3) La terza conseguenza è che le attività oggetto della bolla potrebbero risultare intoccabili per lungo tempo. In tale contesto si potranno osservare comportamenti diversi legati alle varie tipologie di investitori. a) I growth investor fanatici. Questi sono mossi dagli stessi fervori che muovevano i crociati nel Medioevo. Sono fedeli ai temi oggetto di bolla. Leggere la biografia di Cathie Wood può aiutare a capire questi soggetti. Non esistono considerazioni valutative, perchéé quello che comprano non ha, per loro, un giusto prezzo. Sono coloro che cavalcano la bolla fino ai picchi più fantasiosi, e l’accompagnano durante il ritorno alla dura realtà. b) I growth investor opportunistici. Questi si presentano come growth investor ma in realtà seguono il momentum, fiuto e buon senso. Sono smart, veloci a uscire e anche a rientrare. Vendono a clienti, colleghi, amici, familiari e pure a se stessi, le strabilianti qualità dei titoli e le infinite opportunità future che questi celano, ma in realtà rimangono distaccati e pronti a scaricarli alla bisogna. Dopo dieci anni di continua crescita borsistica del settore growth e tre anni di immaginifica bolla tendono, tuttavia, a essere più bolsi e meno veloci. Ogni volta che sono usciti sono rientrati più alti. Questo li porta a perdere abbastanza, prima di adattarsi alla nuova realtà. c) I value investor opportunistici. Questi sono stati per gran parte del tempo lontani dai titoli della bolla. Questo gli ha creato un certo mal di fegato. Gente senza né arte né parte produceva ritorni ragguardevoli, molto superiori ai loro, solo seguendo il gregge o piazzandosi passivamente su indici grondanti di growth. Per anni hanno anche dovuto ascoltare i pipponi sulle grandi opportunità che questo nuovo tema porterà. Per quanto impermeabili, un po’ di questa narrativa è permeata anche in loro. Una volta che il tema si disintegra e, apparentemente raggiunge valutazioni più comprensibili, questo investitore prima gioisce per il venir meno dell’ingiustizia subita, ma poi investe. E normalmente sbaglia. Infatti, le valutazioni apparentemente attraenti che vede sono completamente fittizie. Una bolla compromette il funzionamento stesso del mercato. Molta della crescita del fatturato è opera della bolla stessa. È proprio tale eccezionale crescita che porta ad un continuo rerating dei titoli, che, attirando più soldi e investimenti, produce ulteriore falsa crescita e rerating. È un castello di carte dove è difficile capire quanto ci sia di farlocco e quanto di concreto. Questo processo di auto-magnificazione ricorda il lavoro di Yayoi Kusama e le sue bellissime costruzioni di specchi (qui sopra). Pochi elementi e tanti specchi creano realtà tanto infinite quanto illusorie.
A quanto precede, poi si aggiunge, come più volte detto, la regolamentazione. Ricordiamo bene come le prime avvisaglie su antitrust e regolamentazione del settore digitale nel 2017/2018 portarono a timori e prese di beneficio. Le attuali notizie su questo fronte sono realmente allarmanti, ma il mercato pare anestetizzato. Grasso e indolente, abituato al guadagno fideistico, non ascolta. Tra poco saggerà le conseguenze.
I titoli oggetto di bolla che non falliscono, storicamente vanno nel dimenticatoio per lungo tempo. La sequenza di cattive notizie che lo scoppio di una bolla libera è incredibilmente lunga. Rimanendovi attaccati si rischia di compromettere un patrimonio o una carriera. Meglio trascurarli per un po’ e magari andare a riscoprire qualche settore oggetto di precedenti bolle e fino ad ora irrimediabilmente trascurato, come telefonici, finanziari, utilities, ADAS, produttori di celle al litio, infrastrutture IT (local e hybrid, opposte al cloud puro), giornali, broadcaster, retailer, etc. Senza dimenticare le bolle geografiche ancora più remote, come quella giapponese, coreana e indonesiana degli anni ’90, aree che dopo oltre vent’anni di purgatorio oggi presentano opportunità di investimento molto belle e sane. Alternativamente, per gli investitori growth duri e puri, meglio attendere che il Nasdaq continui a ripulirsi dai titoli oggetto della recente bolla e dai suoi investitori estatici, per ripopolarsi con nuove società e nuovi trend, oltre che con investitori più pragmatici e cinici. Processo che riteniamo necessiti di parecchia pazienza. Intanto per i trader dinamici e capaci ci sono soldi da fare durante i poderosi rimbalzi.
The blue hole
“The Blue Hole” è una famosa, quanto affascinante, depressione marina, a circa 70 km dalle coste del Belize. Oltre che affascinante e famosa, questa depressione è decisamente pericolosa, e quasi 200 persone vi sono morte negli ultimi 15 anni. Infatti, forti correnti, riflessi ingannevoli, grotte profonde e infide creature marine, presentano grandi rischi anche per i sommozzatori più esperti.
The Blue Hole ci ricorda tanto i deficit pensionistici aziendali. Questi buchi finanziari senza fine hanno la capacità di strangolare lentamente le imprese. Ed è quello che è avvenuto negli ultimi dieci anni. Il sistema “defined benefit” usato in passato tende ad aumentare e ridurre il surplus o il deficit pensionistico delle aziende a seconda della variazione delle collegate attività e delle passività. Tuttavia, le passività, ossia le future pensioni da pagare, tendono ad essere particolarmente sensibili ai tassi di interesse, usati per scontare i flussi di cassa che andranno ai dipendenti. Se tanto baccano viene fatto per allertare gli investitori su questi rischi pensionistici, poco rilievo viene dato quando, grazie ai tassi, queste passività migliorano. Negli USA, per esempio, il deficit pensionistico aziendale si e’ ridotto di quasi 200 miliardi di sollari nell’ultimo anno e la copertura ha raggiunto il 98%, un livello non visto dal 2007.
Nella vecchia Europa abbiamo British Telecom, la società con il più grosso fondo pensione in UK, che a inizio 2021 mostrava un deficit pensionistico di circa 7 miliardi di sterline che un anno dopo, a fine marzo 2022, è sceso a 1 miliardo. Abituati alle cifre della nuova economy sul Nasdaq, dove società che non fanno un picco valgono ancora oggi molte decine di miliardi di dollari, tutto questo sembra poca roba. Tuttavia, per BT, società con circa 100k dipendenti e la proprietà del network telefonico fisso britannico, questi 6 miliardi di sterline rappresentano circa 1/3 della sua market cap. Per E.ON, 70k dipendenti, il risparmio sul fondo pensione negli ultimi 18 mesi rappresenta il 25% della market cap. Per Atos, 111k dipendenti, questa differenza rappresenta oltre il 35% della market cap. Per Volkswagen, 670k dipendenti, il 20%. Tanta roba, perbacco!
Se poi si considera questa riduzione significativa di debito, insieme agli utili non distribuiti (o alle perdite realizzate) e a circa il 10% di inflazione degli ultimi 18 mesi (stiamo parlando di società con real asset), BT rispetto a gennaio 2021 e’ scesa del 20% (contro il +20% da listino). E. ON e’ scesa del 30% (contro +10% da listino). ATOS e’ scesa di oltre l’80% rispetto al -66% da listino. Volkswagen è scesa quasi del 40% contro una discesa del 5% da listino. E si potrebbe continuare… Insomma, aggiustate per fondo pensione, utili non distribuiti e inflazione degli ultimi 18 mesi, molte società della old economy presentano un profilo eccezionalmente value e sono molto più vicine di quanto appaia al buco del marzo 2020, pur con prospettive decisamente migliori di allora.
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