In questi giorni viene in mente il vecchio adagio attribuito a Nathan Rothschild, “compra al tuono dei cannoni e vendi al suono delle trombe”.
Una recessione a 2/3 anni dalla pandemia, fino a pochi mesi fa un’ipotesi del tutto remota. Tale eventualità non veniva completamente scartata dal mercato solo per scaramanzia. Come quando temi di perdere l’aereo per recarti al villaggio all inclusive alle Maldive, dopo averlo sognato per anni, pur sapendo in cuor tuo che non lo perderai.
In poche settimane la recessione è divenuta una certezza.
Cercando ora di elevarci sopra il rumore di fondo, diamo un’occhiata ai titoli ciclici, quelli che dovranno più soffrire, ahimè, a causa della recessione.
Oggi i costruttori residenziali negli USA si trovano vicino a -50% dai massimi raggiunti negli ultimi dodici mesi (D. R. Horton e Lennar -45%, KB Home -51%, Redfin -80%). Le banche vanno dal -35% (JPM, Bank of America, Wells Fargo) a oltre il -40% (Citigroup). Le assicurazioni dal -20% al -40% (Metlife -17%, Prudential -25%, Lincoln -39%). Le società di trasporto, quelle che più anticipano una recessione, dal -30% al -40% (Fedex -29%, UPS -27%, DPW -43%), i retailer dal -30% al -50% (Home Depot -35%, Kohls -38%, Macy -47%, Target -48%), i cementiferi e materiali da costruzioni dal -30% al -60% (Martin Marietta -31%, Vulcan Materials -31%, CRH -34%, Tutor Perini -58%), infine, gli automobilistici di oltre il 50% (GM -53%, Ford -56%). Tutti i settori citati non sono comparabili con gli stessi settori nel 2007 o anche nel 2020. Oggi sono molto più solidi e con prospettive di medio termine migliori. Inoltre, il consumatore è meno indebitato e spaventato.
In Europa, cortesia della guerra, troviamo gli stessi ritracciamenti nel settore ciclico, seppur con valutazioni ancora più contenute.
È la recessione inevitabile? Crediamo di no e continuiamo a pensare, a differenza di quanto pensa il mercato, che vedremo una recessione tecnica negli USA quest’anno e nessuna recessione l’anno prossimo. Ma i pronostici, come si sa, lasciano il tempo che trovano e quello che conta rimane il profilo rischio/rendimento. E’ quindi la recessione scontata nei prezzi dei ciclici? Crediamo di sì. Staremmo invece alla larga ancora (per molto) dai tecnologici oggetto della bolla e dai cosiddetti titoli “quality” la cui qualità, con rallentamento e rialzo dei tassi, verrà ben presto testata. E dal momento che si trovano su valutazioni fra il 50 e il 100% sopra la valutazione del mercato, sarà opportuno che la confermino. Infine, attenzione anche ai farmacetici. Sebbene otticamente non cari sugli utili, presentano tuttavia margini molto succosi (ormai stanno tutti tra le 3x e le 5x le vendite), proprio mentre l’amministrazione Biden sta cercando di ridurre il costo dei farmaci da prescrizione negli USA, area geografica da cui arrivano in media quasi 2/3 degli utili del settore.
Noi perdiamo tempo a trastullarci con le società in cui siamo investiti. Leggiamo ciò che pubblicano. Le importuniamo con richieste ardite su come compilano i loro report di sostenibilità (spesso non lo sanno) o per capire i numeri dei loro bilanci o per indagare su come vanno in generale le cose. Quello che osserviamo è che quelle che non vendono commodities (metalli, carta, carburanti, etc) tendono ad aggiornare i prezzi con un certo ritardo in quanto i vecchi contratti non tengono in considerazione sbalzi come quelli che abbiamo visto di recente. Anche i salari necessitano una certa negoziazione prima di essere alzati. Quello che vogliamo dire è che l’inflazione è come una barca, sai che girerà se muovi la barra, ma ha quella cosa, che in termini velistici si chiama abbrivio, che crea un lag temporale. Noi crediamo che l’inflazione galoppante, il terrore di ogni banchiere centrale, sia ormai sotto controllo. Il crollo del mercato e il movimento dei tassi hanno ristabilito ordine. Ma ci vuole tempo prima che si veda nei numeri. Il rischio è chiaramente che una banca centrale inquieta e sotto pressione uccida il paziente con una terapia troppo pesante e non necessaria. Queste cose la banca centrale le sa e sa anche che deve mostrarsi cattiva per uccidere quelli che vengono definiti come “animal spirits” del mercato, ossia la positività umana che si riflette nella salita dei mercati, salita che è di per sé inflattiva.
Buona parte del ribasso è già avvenuto, così come buona parte dell’inflazione ha già fatto il suo corso. Escludendo i tecnologici che vivono una vita a parte, anticipando crescite molto future, e i cd titoli quality, di cui abbiamo già parlato, il mercato americano è oggi di nuovo attraente. Quello europeo vale una canzone e rimane legato alla normalizzazione energetica e alla fine della guerra. Quello giapponese risulta sempre eccezionalmente a buon mercato, con una banca centrale che, sicuramente in accordo con gli USA, sta reflazionando potentemente il paziente e lo sta riportando in vita dopo trent’anni di coma profondo. D’altronde gli USA hanno oggi bisogno di un Giappone forte, che possa presidiare bene un’area delicata. La Corea pare seguire il mercato americano e presenta la stessa occasione d’acquisto che presentò nel marzo 2020. Intanto molti degli emergenti beneficiano del super ciclo delle commodities.
Robert Armstrong, un simpatico e bravo giornalista dell’Ft, parla in settimana della revisione al ribasso degli utili societari (clicca qui per leggere l’articolo). Dopo aver premesso che a 15,2x gli utili 2023 lo S&P non può essere considerato caro, il giornalista tuttavia ipotizza che se al posto di un rialzo del 10% nel 2023, come atteso, ci trovassimo con un ribasso del 10%, lo S&P passerebbe da 15,2x a 18,5x gli utili. In un’area certo non a buon mercato. Bene, ipotizzare un rialzo del 10% degli utili per il 2023 in realtà equivale a prevedere utili piatti, per via dell’inflazione del periodo. Quindi un ribasso del 10% degli utili dello S&P nel 2023 equivarrebbe a un ribasso in termini reali del 20% e sarebbe qualcosa di drammatico, simile a quello registrato nel 2020 (Covid) e solo inferiore a quanto registrato nel 2008, durante la peggiore crisi finanziaria dal ‘29. Questi P/E sono poi ancora la conseguenza della forte presenza di tecnologici e di titoli “quality” interno dello S&P. Nei nostri portafogli è difficile trovare titoli sopra i 10x gli utili e circa la metà trattano sotto il patrimonio netto tangibile. Sia chiaro che non stiamo parlando di poche situazioni estreme, abbiamo infatti nei vari prodotti circa 500 titoli. Come già detto, la situazione ricorda gli anni ’70, quando i titoli dell’economia reale erano estremamente depressi.
Siamo tutti spaventati dalla R, ma non c’è mai occasione migliore di una recessione per ottenere significativi guadagni, con l’eccezione di quelle accompagnate da una crisi finanziaria. Quest’ultime sono lunghe e molto pericolose. Meglio starne alla larga. Oggi, tuttavia, il sistema finanziario è solido, come confermato dallo stesso James Dimon, rispettato e autorevole CEO di JPM, e reggerà bene l’onda d’urto.
Un bear market medio dura circa nove mesi con ribassi intorno al 36%. In questa ipotesi, in ottobre toccheremmo i minimi con un ulteriore ribasso del 17% dai livelli attuali dell’indice S&P500. Uno spazio di ribasso non certo modesto. Ma ricordiamoci che stiamo parlando di statistiche che incorporano bear market quali quello lunghissimo del 2000-2003, quello della grande crisi finanziaria e l’enorme crollo del marzo 2020. Inoltre, dall’inizio del bear market alla fine, un’ondata inflattiva, come detto, avrà protetto il downside dell’indice che, come sappiamo, esprime grandezze nominali e non reali. Negli ultimi dodici mesi il CPI americano è salito del 10% e nei prossimi dodici è ragionevole che salga del 6%. Quindi in termini reali siamo già vicini al 36% citato. Inoltre, in considerazione del sistema finanziariamente solido e delle buone prospettive sul fronte investimenti (infrastrutture, transizione energetiche, deglobalizzazione) è plausibile che, anche in caso di recessione, il ribasso dovrebbe essere più mite della media dei precedenti.
I mesi estivi rappresentano pertanto l’opportunità per investire e posizionarsi attentamente, con giudizio e diversificazione. Prima che il mercato, come un leprotto, cambi rapidamente direzione, proprio nel momento di massima negatività, iniziando a zampettare, allegramente e senza apparente ragione, verso una fase di crescita. Il prossimo rialzo sarà basato meno sulla speculazione e più sull’economia reale e avrà su quest’ultima ripercussioni concrete.
R come rabbit…
ATOS
Nell’ultima settimana, Atos, un titolo su cui abbiamo posizioni rilevanti, almeno per noi che riteniamo la diversificazione vitale, ha perso il 50%. Dopo che aveva perso nei precedenti 12 mesi già il 60%. Si potrebbe pensare che si tratta di un titolo oggetto della bolla del Nasdaq. Nulla di più lontano. Il titolo è uno dei titani della consulenza IT, con oltre 110k professionisti a libro paga e 11 miliardi di euro di fatturato annuo. Il titolo prima del crollo degli ultimi 5 giorni trattava a circa 0.4x EV/SALES contro un mercato che tratta tra le 2 volte (CapGemini o Reply) e le 3 (Accenture). Qui il problema era di governance e management dopo la dipartita di Thierry Breton, due anni fa, che lasciava la guida della società per divenire Commissario EU. Un Presidente del board dirigista, Bertrand Meunier, e un amministratore delegato probabilmente senza la necessaria esperienza, Elie Girard, hanno prodotto una serie di errori importanti. All’inizio dell’anno l’assunzione di Rodolphe Belmer, un manager di esperienza responsabile dell’efficace turnaround di Canal Plus, come nuovo amministratore delegato, ha dato speranza al mercato. Questi ha dolorosamente pulito bilancio (kitchen sinking) e ha riportato la società nel primo trimestre verso la crescita. Dal suo arrivo la società ha anche assunto circa 10k nuovi professionisti (al netto delle uscite). Sicuramente un segnale incoraggiante.
La sorpresa. Pochi giorni fa Belmer è stato licenziato e la società ha presentato un piano strategico (clicca qui per accedere alla presentazione) che sulla carta può avere senso, ma che non ha il supporto dell’amministratore delegato. Il piano si basa sulla scissione della divisione infrastrutture da quella digitale e da quella cybersecurity (BDS). Scissione da farsi entro due anni. Belmer invece voleva vendere la divisione BDS che rappresenta il 12% delle vendite per cui aveva ricevuto un’offerta da Thales per 2,7 miliardi di euro (la società prima del crollo valeva 4,8 miliardi considerando anche il debito di 2 miliardi). Anche Airbus sembrava interessata a rilevarla per una cifra superiore ai 3 miliardi. Vendendo BDS sarebbe rimasta la divisione infrastrutture in ristrutturazione da gestire in futuro come una cash cow e la divisione digitale la cui crescita poteva essere rilanciata.
Davanti alla dimostrazione di disaccordo del management e la decisione finale di perseguire una strategia a cui il CEO, da poco assunto, non credeva, gli hedge fund si sono lanciati a vendere allo scoperto. Gli altri investitori (tra cui noi) sgomenti hanno cercato di capire il senso di tutto questo. Intanto, per facilitare il lavoro agli HF, il governo francese faceva uscire un comunicato che precisava come la società non avrebbe potuto essere oggetto di take over.
ATOS vs CAPGEMINI 3Y Total Return
Source: Thompson Reuters
Purtroppo, queste cose succedono. I tempi di ritorno sul capitale si allungano ma potenzialmente il ritorno aumenta. Nonostante la comprensibile delusione non vi è ragione per cui il titolo tratti a questi prezzi, a prescindere dalla strategia. Il management giusto alla fine verrà trovato. La società ha divisioni uniche di altissima qualità. Crediamo che la crisi nel settore infrastrutture a 12 mesi sarà rientrata grazie alla riduzione di offerta e al trend di consolidamento dell’industria. Il supporto dello stato francese, primo cliente della società, è incondizionato. Il pessimismo e lo short sul titolo sono estremi. Non vi è rischio di falso in bilancio o fallimento. La divisione BDS può in ogni momento essere liquidata ad una valutazione ormai uguale al valore di tutta la società, debito compreso.
Stiamo quindi ricomprando il titolo, sempre nell’ambito della corretta diversificazione e controllo del rischio.
Back Read More
In questi ultimi giorni la voglia di rimanere investiti in azioni comprensibilmente viene messa a dura prova.
Come sappiamo le problematiche sono tante ma cerchiamo di analizzarle in prospettiva insieme alle opportunità che in questi frangenti tendono ad essere dimenticate.
1. I tassi salgono. Salendo i tassi si leva liquidità dal tavolo e quindi meno leva finanziaria e meno investimenti. Tuttavia, tassi più “normali” aiutano la redditività del sistema finanziario, riducono deficit pensionistici aziendali e pubblici e aumentano i rendimenti dei risparmiatori.Inoltre, la normalizzazione dei tassi riduce la speculazione, nemica della crescita reale di lungo periodo. Quanto a mutui e mercato immobiliare, ricordiamo che una famiglia si compra casa quando è fiduciosa sul futuro del proprio lavoro e un 2% di maggior interesse da pagare è determinante solo per la società immobiliare che usa molta leva finanziaria.
2. L’inflazione è molto alta, non distante dal 10%, sia negli USA che in Europa. Tuttavia, 1/3 di quella USA e 2/3 di quella europea derivano dalle componenti volatili legate al cibo e al petrolio, oggi sotto pressione a seguito della guerra. Passata la guerra il tasso dovrebbe scendere gradualmente a livelli vicini, ma superiori al 2%. Questa ondata inflattiva è tuttavia importante per stimolare l’economia di aree come il Giappone e l’Europa, chiuse in una morsa deflazionistica da anni. Se è vero che l’inflazione inizialmente pesa sul consumatore, è anche vero che poi riattiva la dinamica salariale, stimola il mercato immobiliare, in particolare nelle aree secondarie, e rende ancora più interessanti le società quotate legate all’economia reale, con impianti e cespiti, quelle che oggi stanno nella parte value. Se è vero che qualche settore ne può inizialmente risentire a livello di utili, è tuttavia anche vero che nel medio periodo quasi tutte le società registrano maggiori utili in un ambiente inflazionistico, almeno nominalmente. Infine, l’inflazione riduce i debiti pubblici e privati.
3. Il petrolio, gas e derrate agricole così alte rappresentano una tassa per il consumatore. Rappresentano però anche un enorme incentivo ad investire pesantemente nel settore energetico ed alimentare, settori cruciali non solo da un punto di vista ambientale e sociale, ma anche perché sono fortemente capital intensive. Agricoltura vuol dire fertilizzanti, sementì, macchine agricole e terreni che acquisiscono valore. Energia vuol dire rinnovabili, grid, pipeline, idrogeno, nonché stimolare la crescita dell’offerta di gas attraverso più investimenti in upstream. Parliamo di centinaia di miliardi di dollari di maggiori investimenti per i prossimi 3/5 anni a seguito delle anomalie emerse con la guerra. Questo crea un potente volano che nutre la domanda aggregata.
4. La guerra è evento drammatico. Non passa giorno senza che i nostri pensieri vadano alle famiglie devastate dal conflitto. Tuttavia, le guerre finiscono. E questa non farà eccezione. Più sarà lunga la guerra più durerà la volatilità dei mercati, ma più aumenta anche la probabilità il regime di Putin finisca. Una guerra lunga sarà difficile da spiegare anche per un regime totalitario. Una volta finita vi saranno centinaia di miliardi di euro da spendere per ricostruire l’Ucraina. L’Europa finanzierà una buona parte della ricostruzione e ne beneficerà proporzionalmente.
5. Tanto ci si lamenta dei colli di bottiglia della supply chain, ma poco si parla del fatto che questi fanno parte integrante del processo di deglobalizzazione che riporterà in-house tanti processi manifatturieri importanti, supportando il mercato del lavoro già ora solido.
6. Gli stimoli fiscali globali annunciati devono ancora in buona parte essere liberati e supporteranno i trend di cui sopra, in particolare in Europa, Giappone e Corea.
7. La BCE ha in parte deluso. Vero. Avere già predisposto uno strumento contro un’altra crisi dell’area euro (“frammentazione”) sarebbe stato saggio. Ci vuole probabilmente un po’ di tensione sui mercati perché venga predisposto, altrimenti in Olanda o Germania viene a mancare il supporto politico. Oggi però un’altra crisi dell’area euro è altamente improbabile in quanto si sa che in quel caso la BCE certamente interverrebbe in maniera chiara e rapida, con strumenti già conosciuti ed efficaci.
8. Anche in caso di recessione tecnica, meglio non scommettere in utili fortemente rivisti al ribasso. Le dinamiche descritte, oltre la voglia di ripartire dopo la pandemia, e i sovrarisparmi accumulati durante questa dalle famiglie, agiranno da impulso per i consumi.
9. Le valutazioni della parte tradizionale sono molto basse, in particolare fuori dagli USA.
In un contesto di guerra, inflazione, fine del QE, deflazione bolla tech e con una probabile recessione tecnica negli USA in arrivo può sembrare facile scommettere contro il mercato e seguire il trend di questi giorni. Non lo faremmo. Se queste tematiche tengono per ora il mercato cappato, le argomentazioni di cui sopra gli creano un supporto importante. Si continuerà lateralmente e questo darà la possibilità ai più flessibili di acquistare su debolezza (non il tech) e rilasciare sulla forza. Dovremmo probabilmente aspettare la recessione tecnica negli USA, con l’inevitabile frenata inflazionistica per levare gli stop e goderci un significativo rerating del mercato, ad iniziare da Europa e Giappone. Essendo il downside del mercato oggi limitato (parte tradizionale/value) crediamo sia meglio rimanerci e approfittare di queste fasi di stress per accumulare titoli finanziariamente solidi, con un buon franchise e basse o bassissime valutazioni. E c’è l’imbarazzo della scelta…
Panta rei
Un paio di settimane fa Bank of America ha pubblicato un report di Peter Harnet in cui appariva un grafico molto interessante. Esso illustra il break down del GDP globale per area geografica nei diversi periodi storici. Così si può vedere che 2000 anni fa Cina, India, Grecia, Egitto e Turchia rappresentavano l’84% del GDP globale. Verso la metà del 1800 Russia e Cina rappresentavano circa il 40%. Il Comunismo le ridimensionò molto. In particolare, la Russia passò dal 30% del 1800 all’attuale irrilevanza, resa probabilmente ancora più estrema dal recente conflitto. Mentre la Cina ritornò a crescere con l’avvento del “socialismo di mercato” di Deng Xiaoping, passando dal 5% negli anni ’70 all’attuale 25%. La crescita successiva alla sua inclusione nel WTO nel 2001, che segnò l’inizio della fase estrema della globalizzazione, fu drammatica e coincise con la riduzione di peso dei Paesi Occidentali. Il Giappone crebbe dal nulla fino al 5% con l’espansione economica dell’era Meji (1868-1912) che mise fine al shogunnato e ai samurai. La Seconda guerra mondiale ridimensionò pesantemente il Giappone che poi, però, dal 1960 al 1990, cavalcò due fasi di crescita eccezionali che lo portarono fino al 14% del GDP globale. Quasi 30 anni di deflazione e bear market lo riportarono poi al 6%, e ora si vedono segnali di stabilizzazione. La Gran Bretagna visse la sua fase di gloria nel periodo vittoriano e da lì è sempre scesa, sebbene meno dell’Europa. Nei prossimi anni si vedranno i risultati della Brexit sul paese. L’Europa è riuscita a rimanere rilevante per 2000 anni, con staffette tra i romani i francesi e i tedeschi. Il massimo fu toccato negli anni ’60 e ’70 con la creazione di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea. Purtroppo, poi vi fu un graduale declino che accelerò vistosamente con l’entrata della Cina nel WTO. Dopo tale fase l’Europa perse circa il 10% di GDP globale. L’India è rimasta anch’essa rilevante nel tempo. Dopo i fasti di 2000 anni fa, quando il suo GDP era più grande di quello cinese e toccava quasi il 40% del GDP globale, vi fu una graduale riduzione di importanza che si accentuò con la dipartita degli inglesi e la ripartizione del paese. Un paese con grandi risorse, ma con una democrazia confusionaria, l’India è rimasta a circa il 5% del GDP globale per tutto il ventesimo secolo e dà segnali ora di risveglio, purtroppo, come spesso accade, con una democrazia con toni autocratici. Infine, gli Stati Uniti. Sono coloro tra i Paesi Occidentali che meglio hanno saputo gestire la globalizzazione, limitando la perdita di peso che tuttavia risulta essere dal 2001 pari al 5%.
Ognuno può trarre le proprie conclusioni. Noi ci limitiamo a qualche riflessione.
Un governo autocratico che fa le cose giuste può spesso accelerare la crescita del Paese, ma se non le fa può facilmente rappresentare la causa della demise del paese stesso. Quindi per gli investimenti una democrazia per quanto imperfetta, è sempre preferibile.
Pur riconoscendo i meriti della globalizzazione, questa fu impostata male e portò ad un aggiustamento troppo veloce. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un Occidente dipendente da una Cina potente, autocratica, bellicosa e con valori completamente diversi da quelli occidentali.
La Russia sembra pronta a toccare il fondo e non ci sorprenderemmo se questa folle guerra rappresentasse la fase finale del suo drammatico declino.
L’Europa probabilmente potrebbe trovare in una vera unione la soluzione per uscire dalla decadenza in cui si trova. Se è vero che è ancora difficile essere ottimisti su questo fronte, possiamo dire di esserlo più di quanto lo fossimo tre anni fa.
Back Read More