Siamo cresciuti con l’idea che il mondo democratico fosse ben organizzato. Affidato a uomini e istituzioni capaci e responsabili. Equilibrate e giuste. Che la “governance” fosse corretta e ben definita. Così tuttavia non è. Il livello di pressapochismo, ignoranza, inefficienza e disonestà è strabiliante. Molte delle istituzioni internazionali che vantano tanta credibilità sono in realtà dei carrozzoni inetti ed inutili, alla mercé di interessi economici e politici. In un contesto del genere non ci si stupisce che l’avidità organizzata sotto la forma di corporation/business prevalga, controllando i gangli del potere e la vita stessa di miliardi di persone.
L’unico spiraglio di luce per la democrazia di oggi è dato dall’analizzarne l’alternativa: l’autocrazia. Questa rende gli attuali difetti delle democrazie inezie. La democrazia, per quanto imperfetta, rappresenta l’unica forma organizzativa adeguata. Va migliorata per renderla sostenibile.
Una democrazia che non rappresenta le istanze della maggioranza dei cittadini porta inevitabilmente a rigurgiti nazionalistici. Lo abbiamo visto recentemente negli USA, così come in Europa e altrove. Economisti quali Stiglitz, Krugman e Korten, che intravvedevano in un capitalismo troppo selvaggio rischi per la democrazia, sono stati spesso messi da parte. Vengono oggi riletti e riapprezzati.
Non si può negare che la globalizzazione abbia avuto effetti positivi. Grazie a questa, buona parte della povertà nei paesi emergenti è stata sconfitta (vedi grafico sopra) e l’età media di vita si è alzata considerevolmente.
Tuttavia, la sua estremizzazione ha avuto per l’Occidente un costo che ora si dimostra eccessivo, in particolare per i più deboli e numerosi, come si vede nei due grafici qui sopra. Questo costo ha rischiato di far sprofondare l’Occidente nel buio dell’autocrazia. Di aprire una lunga fase di stallo nel cammino del progresso, come fu il medioevo. Tuttavia Covid e invasione ucraina hanno aperto una nuova fase. Una fase di deglobalizzazione necessaria e inevitabile. Che riporterà manifattura, investimenti e posti di lavoro in Occidente. I perdenti saranno le autocrazie nei paesi emergenti, le grandi corporation occidentali che vendono (e producono) nei paesi emergenti e i grandi e piccoli trader che profittano grandemente dai grassi margini legati alle importazioni dai paesi emergenti. L’Europa, così come gli USA, ha stanziato grandi fondi per aiutare i paesi emergenti, per il loro sviluppo economico e democratico. Le opportunità per le corporation occidentali dovranno andare di pari passo allo sviluppo democratico dei paesi dove investono.
Nel novembre 2019 fu pubblicato il libro “Meeting Globalization’s Challenges”, una raccolta di pezzi di economisti illustri sul tema della globalizzazione. L’introduzione fu lasciata alla Christine Lagarde, allora Direttore Generale dell’IMF, una delle istituzioni internazionali più autorevoli e più criticate. Proprio la sua introduzione è una riproposizione edulcorata della narrativa offerta negli anni ’90 e inizio 2000 sulla bontà della globalizzazione. Diversi i riferimenti a paper di dubbia qualità e trasparenza che dimostrano come la globalizzazione non porti alla perdita di lavoro nell’Occidente. Più trasparente, invece, ma altamente opinabile, la descrizione di come re-training e ammortizzatori sociali avrebbero difeso i più deboli in Occidente dalla globalizzazione. Pur ammettendo diversi errori, la Lagarde, inevitabilmente, ancora nel 2019 difendeva la posizione dell’IMF, scritta dagli USA anni sotto dettatura delle grandi corporation, prime beneficiarie della globalizzazione. Sappiamo che la propaganda non esiste solo in Russia.
Uno dei pezzi contenuti nel libro appartiene proprio al premio Nobel Paul Krugman, uno degli esponenti del capitalismo sostenibile.
Qui l’economista riconosce il suo errore quando, negli anni ’90, appoggiò il processo di globalizzazione, difendendolo dalle accuse di coloro che affermavano che avrebbe aumentato le disparità sociali e impoverito l’Occidente. In effetti la globalizzazione si trasformò presto in ciò che alcuni economisti rinominarono “iperglobalizzazione”, responsabile tra il 1998 ed il 2005 della perdita del 10% della forza lavoro nel settore manifatturiero nell’Occidente, oltre 10 milioni di persone. Numero che è continuato a salire fino ad oggi, con danni sul tessuto sociale dell’Occidente e sulla sua supply chain.
L’Europa politica oggi è finalmente unita. Le atrocità in Ucraina e, ancor prima, la poca trasparenza della Cina legata al Covid, hanno scosso opinione pubblica e politica. Anche le corporation stanno comprendendo che il perseguimento dell’utile nel breve potrebbe creare grandi problemi nel lungo. Oggi vi è un allineamento totale. L’iperglobalizzazione è finita e andiamo verso un percorso di investimenti domestici sostanziosi, che creeranno posti di lavoro e sosterranno la dinamica salariale e il potere d’acquisto. Alcune corporation ne soffriranno, ma poi ritroveranno in Occidente parte della crescita persa nei paesi emergenti. Paesi come Cina, India e Medio Oriente, che hanno implicitamente approvato i massacri e la violazione di territorio sovrano in Ucraina, verranno toccati da questo cambio di prospettiva.
Oggi l’Europa ha un deficit commerciale con la Cina di oltre 300 miliardi di USD. Non sono solo inutili orsacchiotti di peluche o camicette in acrilico, ma in buona parte sono macchinari evoluti (vedi grafico qui a destra). Buona parte di questi dovranno essere in futuro prodotti in Occidente.
Le luci del rinascimento sembrano ora prevalere sulle ombre medievali. Se così fosse, ci aspettiamo anni di buona crescita in Europa, riassorbimento del debito accumulato durante il Covid, unione fiscale e politica. Dall’altra parte dovremmo dire addio a magliette e peluche usa e getta. Con significativi benefici per l’ambiente.
Illusioni ottiche
Molto funziona sinusoidalmente. Diremmo tutto, quando ci sono esseri umani coinvolti. Il mercato ce lo insegna quotidianamente. Lo scorso week end la speranza di un cessate il fuoco in Ucraina sembrava crescere. Questo week end sembra ridursi. Dai giornali riemergono paure, sebbene remote, di utilizzo da parte dei russi di testate atomiche tattiche o di armi chimiche. Il successo dell’esercito ucraino viene messo in discussione. La risolutezza di Putin a continuare la guerra, come da lui stesso affermato durante la recente manifestazione pro-guerra a Mosca, sembra cosa certa. La volontà dei cinesi ad appoggiare i russi, velatamente confermata da Xi nella video-chiamata con Biden venerdì, appare pericolosa.
In realtà così non è.
Quello che vediamo oggi è un braccio di ferro in vista di un accordo a cui mancano poche righe per essere firmato. Putin deve salvare la faccia. La Russia chiede la neutralità dell’Ucraina (un enorme passo indietro rispetto alla “denazificazione e demilitarizzazione del paese”), il riconoscimento della Crimea come parte della Russia e il riconoscimento delle due regioni del Luhansk e Donetsk come stati indipendenti. L’Ucraina accetta la neutralità, ma non riconosce l’esproprio della Crimea e l’indipendenza delle due Repubbliche. D’altronde l’esproprio con la forza non potrà mai essere accettato per una questione di principio internazionale. Inoltre, migliaia di vite umane sarebbero state sacrificate per nulla. Quindi un accordo che verte sull’indipendenza della Crimea (che la sua popolazione approverebbe con referendum, come avvenuto in molti paesi in passato) e una forma di autonomia spinta delle due Repubbliche è probabile. Infine, i danni di guerra. Qui il braccio di ferro è serrato, ma verranno concessi contro un rilassamento delle sanzioni. Crediamo che la Russia non possa permettersi politicamente di continuare la guerra ad oltranza. Per questo è importante faccia sembrare possa farlo, per avere più forza nelle trattative. Inoltre, la conquista di Mariupol e quindi dell’accesso al mare, dalla Crimea alla Russia, è fondamentale. La sua restituzione può essere materiale di scambio al tavolo degli accordi. Quanto alla Cina, questa non vuole indebolire la posizione di Putin ora che sta negoziando. Ma sicuramente esercita pressione per una chiusura delle ostilità. La Cina deve assolutamente evitare di essere tagliata fuori dall’Occidente, Occidente che già sembra propenso a farlo (si veda articolo precedente). La notizia confermata che la Cina ha negato ricambi per aerei alla Russia va in questa direzione. Il soccorso al mercato offerto giovedì dal governo cinese esprime forte disagio e crescente preoccupazione.
Non possiamo dire quanto ci vorrà ma crediamo che un cessate il fuoco sia vicino. E gli ultimi giorni prima del cessate il fuoco saranno quelli in cui le forze russe lanceranno l’ultimo attacco, il più feroce. Questa fase è già iniziata.
Putin salverà la faccia. Venderà probabilmente i danni di guerra da pagare come aiuti per il paese amico devastato dalle pressioni della Nato. Tuttavia, gradualmente la verità uscirà fuori. Intanto la popolazione Russa ne risentirà drammaticamente, nonostante molte delle sanzioni saranno nei prossimi mesi tolte. Questo potrebbe portare entro un paio d’anni all’uscita di scena di Putin, in modo non dissimile da quella che fu la dipartita nel 1999 di Boris Eltsin. Una dipartita apparentemente volontaria, ma in realtà obbligata. Cio’ dovrebbe segnare l’inizio della ripresa per questo enorme Paese e per la sua sfortunata popolazione, che negli ultimi 25 anni non ha beneficiato della crescita globale. Il grafico qui a fianco mostra la crescita di PIL di Cina e Russia in questo periodo.
Quanto alla recessione che tanti si aspettano, crediamo sia molto improbabile. Guardando la TV ci si rende conto del danno all’economia nei paesi europei. I media creano molta ansia. Questo danneggia la domanda aggregata. Tuttavia, non possiamo non notare quanto il venir meno delle restrizioni covid porti la gente ad uscire e spendere. La primavera è iniziata e questa tendenza aumenterà. Le temperature salgono ed il prezzo del gas naturale crollerà. L’offerta di petrolio rimane abbondante, il suo prezzo riflette la speculazione. Infine, sulla scia di questa ansia, che prende come sempre anche le istituzioni, nuove politiche fiscali verranno implementate e manifesteranno i loro benefici ben oltre la fine della guerra. L’unica cosa (apparentemente) positiva che circola è che i tassi BCE non saliranno. Anche qui non siamo d’accordo. I tassi saliranno presto, fortunatamente.
In definitiva, crediamo che eventuali fasi di forte negatività del mercato possano essere buone opportunità per incrementare la propria esposizione all’equity, in particolare la componente value, la più colpita in questa fase in quanto generalmente più legata alla crescita dell’economia. Questo sempre nell’ambito di un’allocazione bilanciata, che tiene in debito conto profilo di rischio del prodotto/investitore e nel rispetto della diversificazione, che deve sempre essere significativa.
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Caro signor Cheicheiar,
sono un bambino di 10 anni. Quando nacqui il nonno mi regalò parte delle sue azioni di Telecom Italia. Azioni di risparmio che, mi ha detto il nonno, danno sempre il dividendo che mi potrà essere utile un domani per pagarmi gli studi. Ma io vorrei comprarmi la PlayStation.
Il nonno le comprò quasi 20 anni fa per la sua vecchiaia, ma quando me lo ha raccontato ha fatto un’espressione strana.
Io non so molto di azioni, ma mi piacciono. Il papà ne va matto e la domenica passa il tempo a leggere i giornali di finanza. La mamma non sembra contenta. Lei preferirebbe andare da Ikea o Zara.
Il papà mi ha detto che le azioni che mi ha regalato il nonno non sono buone. Dice che il nonno è anziano e non capisce tanto di azioni. Papà dice che le azioni del nonno sono scese tanto e che farei meglio a venderle e comprare eppol. Questo mi ha molto rattristato. Anche perché sembra che quello che mi è rimasto non basti per comprare la PlayStation.
Il nonno dice che la società ci fa parlare al telefono. Con la mamma, la Zia Ginetta, e la Zia Assuntina. E ci fa anche guardare Disneyplus, che mi piace parecchio. Tutto questo, dice il nonno, al costo mensile di un pranzo in rosticceria sotto casa. Mi piacciono tanto i peperoni ripieni che fanno lì.
Questo credo sia positivo. Parlare con le zie e guardare Disneyplus quanto vuoi, al costo mensile dei peperoni ripieni, il gelato e un’orzata mi pare bello. Il papà risponde che però a questi prezzi Tim non ci guadagna, ma non possono aumentarli per colpa del signor Regolatore. Non ho capito bene chi sia, ma credo sia cattivo, perché punisce le società brave.
Il papà dice che gli unici che ci guadagnano sono i capi della Tim. Stanno per poco tempo e guadagnano milioni. Vorrei che il papà fosse capo della Tim.
Papà poi dice che lei, signor Cheicheiar, vuole comprare Tim pagandola molto più di quello che vale ora. Tanto che ci ricaverei i soldi per la PlayStation. Non so bene perché lo fa, ma ne sono felice. Lei è buono.
Allo stesso tempo l’attuale capo della Tim, signor Alessio, e i suoi amici che comandano con lui nel brd, dicono che la società vale quasi 5 volte quello che vale ora e quasi 3 volte quello che ha offerto lei signor Cheicheiar. Ma se vale così tanto perché se la vendo non riesco neanche a comprarci una PlayStation? Non capisco tanto la differenza tra il prezzo e il valore. Per la PlayStation i due valori sembrano coincidere.
Ho chiesto al papà perché qualcuno può dire che l’offerta è bassa anche se ammonta al doppio del prezzo a cui posso vendere le azioni oggi. Lui non mi ha risposto.
Il nonno ieri mi ha detto poi che il capo di Tim ha deciso di non pagare il dividendo alle mie azioni di risparmio altrimenti ci pagava le tasse. A parte che pagare le tasse il nonno dice che è giusto per far funzionare gli ospedali e la polizia, mi chiedo se il capo di Tim si abbassa lo stipendio per non pagare le tasse. Certo che è strano questo signore. Anche più strano del signor Regolatore.
Io, signor Cheicheiar, sarei tanto felice che lei comprasse Tim e ci guadagnasse tanto. Io continuerei a parlare con le zie a cui voglio bene. E comprerei la PlayStation.
Distinti saluti
Ucraina e Cina
Mentre i bombardamenti straziano le città ucraine continua il tam tam mediatico che crea ansia e volatilità. Il mercato crediamo teme oggi due eventi. Il primo è un allargamento del conflitto alla NATO. Il secondo è che le sanzioni si estendano anche alla Cina, rea di aiutare la Russia. Nel primo caso parlare di asset allocation non ha molto senso, mentre avrebbe senso iniziare ad organizzarsi per spostarsi in montagna o in cantina. Nel secondo caso la recessione sarebbe certa. Come abbiamo già detto, sebbene errori siano sempre possibili, crediamo il primo scenario molto improbabile per le conseguenze che porterebbe. Crediamo anche improbabile il secondo scenario che vedrebbe una Cina con crescita economica negativa che, a sua volta, porterebbe rischi alla stabilità del regime cinese. In Cina i cittadini rinunciano alla democrazia in cambio del viaggio verso il benessere. Oggi il benessere è tuttavia concentrato su una minoranza ed è obiettivo di Xi Jinping redistribuirlo. Una recessione peserebbe proprio sui più deboli (che sono anche i più numerosi e i più arrabbiati).
Se la probabilità dei due eventi col passare del tempo si allontana, riteniamo che il mercato possa tornare lentamente verso la normalità. Il petrolio e il gas gradualmente scenderanno e così le materie prime. E le azioni, in particolare quelle value, recupererebbero. Anche se il conflitto dovesse cronicizzarsi.
Se poi vi fosse a breve un cessate il fuoco credibile allora il riaggiustamento sarebbe rapido. Ma per ipotizzare questo ci rendiamo conto ci vuole un certo ottimismo, elemento che a noi comunque oggi non manca…
Cybersecurity e paranoia
Il nostro IT ha deciso che un attacco informatico di matrice russa è impellente e che dobbiamo rafforzare ulteriormente i presidi. È questa l’aria leggermente paranoide che gira ora nell’ambiente e noi, sebbene titubanti, ci adeguiamo. Il danno, sebbene remoto, sarebbe troppo alto altrimenti. Tra poco non ci sorprenderemmo se tabaccherie e negozi di profumi iniziassero ad installare programmi e processi di cybersecurity.
Atos, società di consulenza IT di cui abbiamo parlato più volte e che passa una fase di transizione difficile (è recentemente uscita con l’ennesimo profit warning), ha una divisione che si chiama BDS. La sigla sta per big data e cybersecurity. Questa divisione è considerata uno dei leader nella cybersecurity e chiaramente risulta la prima scelta delle migliaia di clienti delle altre divisioni di Atos. La divisione BDS registra vendite per circa 1,5 bln euro ed è stata valutata dai 3 ai 4 bln euro. Recentemente ha ricevuto un bid iniziale da Thales di 2,7 bln euro che è stato rifiutato.
Valutiamo la divisione BDS sulla base di quanto offerto da THALES. Valutando anche la divisione infrastrutture di Atos al 50% di dove sta il mercato (ossia solo 0,1x le vendite), la divisione digitalizzazione con uno sconto del 40% di dove sta il mercato (ossia 1x le vendite) e sottraendo il modesto debito, il titolo varrebbe circa 60 euro per azione. Con ipotesi caute. Oggi ne vale invece solo 25. Se si vuole investire nel crescente timore di guerra informatica, la povera e straziata Atos sembra essere il player value di qualità con uno dei profili rischio/beneficio più attraenti su base globale.
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Sono momenti difficili. Come esseri umani e come investitori. Negli ultimi due giorni abbiamo visto chiari segnali di market dislocation in Europa. L’Europa soffre per essere fisicamente vicino all’Ucraina. Questo comporta chiaramente maggiori ripercussioni economiche, oltre che timori di un possibile coinvolgimento diretto. L’attacco ad una centrale nucleare ucraina, seguito da uno scambio di minacce tra Nato e Russia, ha molto aumentato lo stress del mercato e ha portato ad un indiscriminato sell-off che, a sua volta, ha innescato vendite tecniche in un mercato azionario che, oggi, vede la prevalenza di gestori di capitali che seguono approcci quantitativi, quindi momentum. Ricordiamo che l’Europa era stata negli ultimi mesi un’area di riscoperta per investitori americani e asiatici. Inoltre, l’Europa è un mercato azionario più tradizionale di quello americano, maggiormente esposto a società sensibili alla crescita dell’economia, crescita che viene ora messa in dubbio.
Come più volte detto, riteniamo che l’Europa sia una delle aree dove risiedono le migliori opportunità di investimento, non solo nel breve, ma anche e soprattutto nel lungo termine.
Guerra a parte, nel breve l’Europa si trova economicamente in una condizione migliore degli USA. Negli USA, infatti, la fiducia dei consumatori sta fortemente risentendo di mercato deboli, tassi in salita e commodities sotto pressione. In Europa il consumatore è meno sensibile ai mercati azionari, al prezzo della benzina e ai tassi, che comunque qui rimangono bassi. L’Europa sta oggi uscendo dalla pandemia sull’onda di politiche fiscali espansive, con alti risparmi privati e voglia di uscire, viaggiare e spendere. I fondi per la transizione energetica, la digitalizzazione e le infrastrutture (NEXTGeneration EU) iniziano a essere rilasciati. Gli utili societari stanno crescono e il sistema finanziario è molto solido.
Nel lungo, abbiamo già parlato come in Europa emergano trend potenti che possono tagliare lacci e lacciuoli che hanno tenuto l’area sotto pressione. Parliamo di politiche fiscali che mirano finalmente ad unire l’area e politiche industriali che porteranno al ritorno della manifattura, dell’agricoltura e della gestione della difesa all’interno dei nostri confini, e, con loro, Investimenti e piena occupazione. Di dinamiche salariali finalmente positive che creeranno domanda per beni e servizi di base, oltre che a una rivalutazione di asset dimenticati come l’alloggio, il capannone o il terreno in periferia. Allargare il beneficio della crescita a tutte le classi sociali porta enormi vantaggi economici, finanziari e politici, allontanandoci dai pericolosissimi nazionalismi, che possono condurre ad autocrazie e conflitti.
Rischi di conflitto nucleare? Abbiamo imparato a non scartare alcuna ipotesi ma, epicureanamente, riteniamo che in caso di guerra nucleare l’allocazione geografica non faccia molta differenza. Detto questo, riteniamo chiaramente l’ipotesi estremamente remota.
Paura di recessione? Come detto i fondi NEXTGeneration EU vengono ora rilasciati e il rilascio verrà probabilmente accelerato (appena pagati 7 bln euro alla Francia e a settimane è previsto il rilascio di 21 bln euro all’Italia). Il rientro fiscale, dopo l’enorme espansione fiscale pandemica, previsto per quest’anno verrà, se necessario, ritardato. Così il roll off del QE. Questo, insieme alle riaperture post-Covid, si unirà ai trend potenti europei di cui sopra. Una volta che la fase acuta del conflitto volge alla fine e la percezione del rischio di un suo allargamento si riduce, l’Europa tornerà al suo tran tran, in questi giorni quanto meno rallentato dalle tensioni in atto. Crediamo che la fase acuta non durerà ancora molto.
Infine, le valutazioni del mercato europeo prima del conflitto ben riflettevano la situazione di degrado sociale e politico che decenni di stagnazione avevano creato, offrendo potenziali di rerating sostanziali. Oggi questi potenziali sono parecchio aumentati, cortesia di panico e flussi legati ad un evento esogeno quale la guerra.
Crediamo che il poderoso bull market americano sia giunto al termine. Il periodo in fronte a noi è stato da alcuni, come Michael Hartnett, Chief Global Strategist di BoA, comparato con l’entrata negli anni ’70, periodo che con la situazione attuale condivideva tensioni geo-politiche, crisi petrolifera, ripresa dell’inflazione e valutazioni molto distanti tra value e growth. Il mercato nei successivi dieci anni si mosse lateralmente, ma le small caps e il value fecero estremamente bene. Il growth, che partiva da valutazioni piene e che normalmente soffre della riduzione di liquidità legata al rialzo dei tassi e rientro dell’euforia, fece molto male.
Sebbene soffriamo molto della volatilità di questi giorni siamo soddisfatti con il nostro sovrappeso di azioni value europee e crediamo che questa fase rappresenti un’occasione importante per chi volesse qui aumentare l’esposizione, nell’ambito della propria asset allocation.
Europa, ora o mai più.
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